Steve McCurry – Le vite degli altri (6/6)

Questo è l’ultimo articolo della serie. Ne sono usciti altri cinque, che trovate nei link a seguito: AFGHANISTAN ’79 E LE STORIE CHE DEVONO ESSERE RACCONTATE (1/6); COMPROMETTERSI PER DIVENTARE PARTE DELLA STORIA (2/6); FIABE DALL’INDIA (3/6); DISTRUZIONE (4/6); TECNICA E GEOMETRIA DI UN FOTOGRAFO (5/6).

L’ultima fotografia è la ragazza afghana. Un’icona planetaria; una foto che tutto il mondo ha visto e interiorizzato. Occhi verdi, un velo rosso. La seduta leggermente fuori asse rispetto alla macchina fotografica, gli occhi puntati.

Dal 30 ottobre 2014 al 6 aprile 2015 c’è una retrospettiva di McCurry a Villa Reale, Monza. La foto è appesa, di fronte c’è una ragazza. Età da liceo. Sola. La guarda attentamente. Ha la testa un po’ di sbieco, i capelli raccolti in una cipolla che sa qualcosa fatto troppo in fretta. Tiene un piede dietro l’altro: il primo le da equilibrio, stabile a terra; il secondo è appoggiato solo con la punta, come un etoile che veste Vans anzichè le scarpe con le punte gessate. Tra i moltissimi visitatori c’è chi lo conosce benissimo, chi lo vede per la prima volta, chi ci è passato per caso una domenica pomeriggio d’inverno. Si guardano tutte le foto, ci si passa davanti, ci si ferma, si commenta. Poi c’è l’afghana, e la sensazione, a guardare le persone davanti a quella foto, è di essere davanti alla Gioconda. Tutto è un contorno per quella grandezza. Per resistere alla portata di quella fama. Foto alla foto, condivisioni. “Io l’ho vista”. E poi? È davvero quello che ci si aspettava? Perchè proprio quella foto? Cosa si cerca, dentro quella foto? Qualcosa di noi, in quegli occhi?

ragazza afghana

In alcune culture c’è la convinzione che le fotografie rubino l’anima. Non si parla solo isolate tribù africane o sperduti aborigeni delle Triobriand. Gli ultraortodossi ebrei nella modernissima Israele, per esempio. Non è una cosa di civiltà o di superstizione; lo facciamo tutti, quando ci sottraiamo ad uno scatto. Quando non vogliamo partecipare ad una inquadratura. E forse il selfie è proprio una risposta a questo, uno sdoganare il serio con la parodia. I ritratti con i selfie. Creare, dentro foto scattate ad hoc, una qualche identità. Ma è un altro mestiere. Un’altra fotografia. McCurry porta via qualcosa della gente che ha fotografato. Ha trovato una chiave per far credere alla razionalità occidentale che forse c’erano antiche saggezze non del tutto errate. Infatti la storia di quella fotografia è la rapina perfetta, perchè dura cinque secondi e si porta via un’anima.

Ragazza Afgana

La ragazza afghana si chiama Sharbat Gula (fiore di acqua dolce). Fu la copertina di quel National Geographic che ora, per chi ne possiede una copia, è un pezzo da collezione. Volume 167 numero 6. Giugno 1985.

Nel 1984 Nat Geo propone a McCurry di fotografare un campo profughi afghano (si parla sempre della solita guerra in Afghanistan iniziata nel ’79) lungo la frontiera tra Pakistan e Afghanistan. Nei dintorni di Pashawar si imbatte in questo campo, Nasir Bagh. Entra, vive con loro. Vince un World Press nella categoria vita quotidiana, per un ritratto di una famiglia davanti al televisore, dentro una tenda. Nel campo la vita viene ristrutturata dando una sembianza di naturalezza. I bambini vanno a scuola, i turcomanni continuano a cucire tappeti che vendono per le strade della città. Appena oltre c’è guerra, e la Croce Rossa ha presidi ospedalieri dove in via vai è incessante. Passeggiando tra le tende sente voci di ragazze. È una classe femminile. Chiede il permesso all’insegnante, scatta qualche foto, poi vede gli occhi di questa ragazza e ne rimane folgorato. Aveva dodici anni – dice McCurry – e quell’espressione intensa, tormentata e incredibilmente penetrante. È timida, e McCurry per metterla più a suo agio scatta qualche inutile ritratto a delle sue compagne. Poi arriva il suo turno. Dura tutto pochissimo. Una decina di scatti in serie. Poi lei si imbarazza e se ne va. “Per un istante tutto era stato perfetto. La luce, lo sfondo, l’espressione dei suoi occhi”, dice il fotografo. Non si conosce la sua identità, e non la si conoscerà ancora per molti anni.

Nel 2002 (intanto è scoppiata un’altra guerra e gli americani stanno invadendo l’Afghanistan) McCurry con una troupe di National Geographic Television si mettono alla ricerca della ragazza. Tornano al campo vicino Pashawar poco prima che venga demolito. Chiedono agli anziani, la voce si spande e si presentano decine di donne che con quella foto non c’entrano nulla, sperando di racimolare qualche soldo come redivivi Sebastiani alla ricerca della loro trono. Una di loro sta quasi per farcela, sembra lei. Tutti sono d’accordo. Tutti, tranne Steve McCurry. Non è lei, dice. E per tutti quelli che gli sono intorno sembra lo scatto d’orgoglio dell’artista. Ma ha ragione, perchè la donna che si è presentata non è Sharbat Gula. Ad un certo punto delle ricerche pensano che sia morta. Poi, quasi improvvisamente, ad un passo dall’abbandonare le ricerche, un uomo dice di conoscere il fratello della ragazza. La troupe si muove verso un villaggio afghano a pochi chilometri dai bombardamenti americani sulle grotte dove si pensa sia nascosto Bin Laden. Dopo una serie di formalità tipiche della cultura islamica afghana McCurry ha modo di parlare con lei. Acconsente di farsi fotografare di nuovo (meglio dire che è il marito ad acconsentire per lei) e la foto della ragazza ritrovata appare sul National Geographic del 2002. Da questa storia nasceranno poi due associazioni. L’Afghan Girl’s Fund, per dare istruzione alle giovani afghane, che poi confluirà nel Afghan Children’s Fund, che estende il progetto a tutti i giovani senza distinzione di genere.

Quello della ragazza afghana è forse l’apice del ritrattismo nella carriera di McCurry, pur essendo all’inizio della infinita serie di ritratti che costituiranno la maggior parte del suo portfolio. Già in Afghanistan nel ’79 aveva eseguito molti ritratti e per tutta la sua carriera il ritratto rimarrà il cardine portante della suo approccio alla fotografia.

Ritratti - occhi

Nel 1931 uno dei filosofi più interessanti del Novecento pubblicò su una rivista berlinese una Piccola storia della fotografia. Non era passato nemmeno un secolo dai primordi dagherrotipici in lastre d’argento a venticinque franchi d’oro l’una. Cinque anni dopo lo stesso filosofo scriverà un libro di estetica che in pochissime pagine (una cinquantina) cambia totalmente una prospettiva di pensiero rispetto all’arte e all’epoca storica in cui si vive. Il libro è L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica; il filosofo, va da sé, Walter Benjamin. Nel suo primo libro dei due, quello sulla fotografia, il potere della fotografia, secondo Benjamin, sta proprio nel sospendere spazio e tempo, fermando il momento dello scatto in un infinito presente, cioè il tempo della foto. La ragazza afghana avrà per il mondo sempre dodici anni. Sempre quegli occhi, e sempre quell’espressione. Le fotografie sul Nat Geo di Sharbat Gula adulta sono fotografie che trovano ragion d’essere solamente alla luce delle fotografie del 1985. È stata ritrovata, ma dov’è andata la bellezza di quella ragazzina? La foto della ragazza afghana da adulta rompe il meccanismo del hic et nunc, del qui ed ora della foto, del suo infinito presente. La foto del 2002, con Sharbat Gula ritratta insieme alla sua famiglia e insieme alla copia di quel Nat Geo da storia al primo ritratto di se stessa dodicenne. Per questo non funziona. L’afghana deve essere senza tempo, non può essere diventata una donna. Vien naturale, sul solco di Benjamin, chiedersi allora dell’afghana di McCurry (intesa come foto) cosa è rimasto? Solo l’icona? O ha ancora voce?

Tutti i giornalisti hanno chiesto a McCurry di questa sua foto. Lui una volta ha detto che è stancante ripetere sempre le stesse cose e raccontare sempre la stessa storia, ma alla fine è meglio una foto che abbia colpito che una foto dimenticata. “La salva la sua qualità”, per questo non si arriva mai alla saturazione.

Ho visto la ragazza alla mostra di Villa Reale andarsene, mentre la foto rimaneva lì per il successivo visitatore smanioso, finalmente, di vedere quella foto infinitamente riproducibile, tanto che non ha senso parlare di originale per nessuna delle foto esposte. Forse dell’afghana è rimasta solo l’aura, la fama. Mi piace credere che ogni tanto abbia ancora la voce di una profuga, con la storia che si porta.

In qualche modo bisogna finire, e si potrebbe parlare di tutte le esposizioni e le retrospettive di e su McCurry a partire dal 1972, quando per la prima volta, a ventidue anni, molto prima di decidere di fare il fotografo, espose qualche fotografia alla Pennsylvania State’s Zoller Gallery in una mostra collettiva. Oppure di tutti i premi vinti, importanti e meno importanti, dopo il 1980, quando vince la Robert Capa Gold Medal. Si potrebbe parlare dei libri che ha venduto. Che sono di fotografia e costano molto, ma ha numeri editoriali di vendita da narrativa. Si potrebbe, e in parte l’ho fatto nel corso dei cinque articoli precedenti a questo. Ma l’elenco ha senso solo se si capisce il perchè di quei premi, di quelle esposizioni, di quei libri. Non è un feticismo del premio che fa grande un fotografo o un’artista. È il lavoro, quindi le fotografie. Il premio viene dopo, e forse è meglio lasciar parlare le fotografie. In una lettera del 9 giugno 1964 Italo Calvino scriveva tutta sua contrarietà al fornire i dati biografici. “Sono di quelli che credono, scriveva, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente).” Io ho scelto un po’ una via di mezzo, dando qualche indicazione quando mi sembrava necessaria e cercando di focalizzarmi su singoli aspetti tematici del fotografo americano. Quello che conta, in fondo, sono le fotografie e la particolarità di McCurry nell’aver sempre avuto a fuoco le vite degli altri. Anthony Bannon, direttore dell’International Museum of Photography and Film di Rochester, NY:“L’immagine [la ragazza afghana, nda] è il simbolo della carriera di McCurry ed è perfettamente in linea con i suoi obiettivi artistici: rappresentare attraverso le vite degli altri questioni di portata universale, che ci parlino della condizione umana”. Ecco.

le foto sono tratte da stevemccurry.com il collage è mio

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9 pensieri su “Steve McCurry – Le vite degli altri (6/6)

  1. Bellissima la foto ma anche la storia; sembrerebbe la trama di un romanzo, frutto della fantasia! E’ incredibile tutta la sua vita. Saper cogliere l’attimo forse da’ il via a una combinazione di avvenimenti quasi perfetta. Complimenti!

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  2. SteveMcCurry ha potuto fotografare la ragazza afgana nel 1984 , noi fotografi amatoriali se dovessimo fotografare ritratti di bambini nei paesi sviluppati ai tempi nostri é impossibile .Perche é vietato a fotografare e pubblicare minori a meno che non sia il consenso dei genitori perché gli insegnanti non possono dare il consenso .Sembra che più si va avanti e per i fotografi di street Photography diventa un impresa impossibile a catturare ritratti di vita anche drammatici come nelle guerre ,alluvioni , terremoti eccetera.sono appassionata di street photography e nel mio blog ci sono le mie Photo .mi piace osservare le fotografie di Steve McCurry perché documentano la storia del umanità .un saluto 🙂 Viola

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  3. Molte fotografie ritraggono volti espressivi e sguardi di particolare intensità.Le loro imitazioni scattate in tempi successivi senza dubbio suscitano emozioni in chi le osserva,ma l’unicità di uno sguardo è la stessa unicità dell’anima,è una e riconoscibile tra migliaia per chi la guarda anche col cuore.Per questo la Ragazza Afgana è entrata nel cuore della gente,per la sua anima così ben rappresentata da McCurry che a distanza di tempo ha saputo disconoscere e poi riconoscere ancora quell’anima,nonostante il tempo trascorso. Come si suol dire, la classe non è acqua, e questo post lo ha saputo ben descrivere.

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