L’articolo che segue è la seconda parte della storia del fotografo americano Steve McCurry. La prima parte la trovate qua. Seguono la terza parte – quarta parte – quinta parte – sesta parte.
La seconda foto è il compromesso.
Un uomo con l’acqua alla gola, una macchina da cucire arrugginita sulle spalle e un sorriso imbarazzato, di chi sa di essere fotografato e quindi toglie lo sguardo dall’obiettivo. L’uomo della foto ha l’acqua alla gola solo letteralmente, perchè la metafora non bacia. È un uomo che appartiene a quel tipo di gente che all’acqua alla gola ci fa l’abitudine, e non c’è disperazione e tragedia negli occhi. Per questo sorride. Porta a spalla una macchina da cucire; fa il sarto. Il “sarto del Gujarat”.
Lo si vede ridere perchè dall’altra parte dell’inquadratura, dietro McCurry, ci sono dei ragazzini. McCurry ha detto in un’intervista che “Quando l’ho notato era serio e preoccupato, poi alcuni ragazzi si sono accorti di me e hanno cominciato a gridargli di sorridere, perchè lo stavano fotografando. Lo prendevano in giro, infatti se lo guardi bene capisci che c’è anche imbarazzo sulla sua faccia”.
Qualche tempo dopo grazie a questa foto riceverà una macchina da cucire nuova di zecca, con cui poter lavorare meglio.
Il piano inquadratura è parallelo rispetto al soggetto. Non è una foto scattata dall’alto, come le condizioni darebbero da pensare. L’acqua sarà stata alta un metro e mezzo, al minimo. Probabilmente qualche decina di centimetri di più. Significa che Steve McCurry questa foto la scatta nelle stesse condizioni del suo soggetto. Acqua alla gola e la macchina fotografica sulla testa. È il 1983, e lui è in India da un anno. Sono gli anni in cui scatta le fotografie che lo renderanno immortale. Ma arriva il Monsone, e i suoi altri progetti vengono messi in stand-by. Il monsone va fotografato. Va seguito. Va rincorso.
Dopo la Robert Capa Golden Medal del 1980, ottenuta grazie alla copertura di quel che era successo e succedeva in Afghanistan dal 1979, McCurry era diventato un fotoreporter la cui qualità dei progetti era da subito apparsa indiscutibile, e questo l’aveva reso un fotografo conteso. È vero che era solo all’inizio, ma è vero anche che tutti gli addetti ai lavori avevano la indelebile consapevolezza che finanziare un progetto a McCurry sarebbe stato un rischio, se tale era, che era necessario correre. Senza mezzi aveva vinto uno dei premi più prestigiosi nel mondo fotografico. Finanziarlo significava, probabilmente, aggiudicarsi fotografie che facevano vendere migliaia di copie in più. Infatti nel 1983, sotto richiesta di quello che sarà il più importante dei suoi datori di lavoro, il National Geographic Magazine, torna in India e nel Sud-Est asiatico a coprire la stagione dei monsoni. La libertà del progetto è pressochè totale, il taglio fortemente dipendente dalle scelte di McCurry. Potrebbe essere un reportage paesaggistico, con la grossa dei fiumi e con piogge torrenziali. Ma questo a McCurry non interessa. Lui ha un’unica priorità, che si declina in molte soggettività differenti: il fattore umano. Quello che lui fotografa, il file rouge della sua carriera, sarà sempre l’essere umano e il suo darsi in modi continuamente differenti. Quella di McCurry è quasi sempre una antropologia fotografica.
La foto del sarto viene scattata a Porbandar nello stato del Gujarat, India. Il mare di fronte, a nord il Pakistan. Questa foto è il compromesso perchè è grazie a questa foto che McCurry diventa il fotoreporter che conosciamo. Lascia qualcosa, prende qualcosa d’altro. Scambio faustiano che spinge il limite dell’uomo più in là.
McCurry comincia a fotografare le inondazioni e le piogge dalla barca, muovendosi per le strade che sono diventati canali. Ogni paese è una piccola Venezia del Sud-Est. Lui attraversa i confini, dall’India alle Filippine, ma il punto di vista non è soddisfacente. E come potrebbe esserlo? Le fotografie parlano solo se testimoniano. Se raccontano un coinvolgimento. E lui ancora è distante.
Devi sentire le bombe per raccontarle, ha detto Quirico, giornalista de La Stampa sequestrato in Siria. Sennò non ti crederà mai nessuno. Come puoi descrivere una cosa da lontano; senza il rumore delle bombe nelle orecchie, senza le urla, senza le mamme che cercano inutilmente di proteggere i propri bambini, struggenti nella loro cecità di fronte al male assoluto (radicale, usando Kant) difendendo i propri bambini dalle bombe abbracciandoli. Devi provare la stessa paura di chi non pensa di arrivare vivo all’alba. Di chi non dorme. Di chi non ha casa. Solo allora potrai raccontarlo e capire quello che stai scrivendo, diceva Quirico.
McCurry lo sa bene. Lui le bombe le ha prese sulla testa, quelle dei sovietici contro le postazioni sulle montagne dei mujaheddin. Ha preso i proiettili dai kalashnikov degli agenti di un finto posto di blocco, in Afghanistan. Se si fosse fermato l’avrebbero sequestrato. Probabilmente sarebbe morto. Sa che deve compromettersi per raggiungere l’obiettivo. E quando comincia a scattare dalla barca, o quando si sposta sui tetti delle case, lui sa che alla fine sta solo consumando pellicola. Per essere un tipo di persona, devi vivere come quel tipo di persona. McCurry deve scendere. A Benares si compra degli stivali da pesca, scende in strada, con l’acqua fino alla vita. Ma non funziona granchè. Ha ancora una forma di timore, una pulsione di vita che lo avverte che c’è un pericolo da evitare. Che camminare dentro lì vuol dire prendersi malattie e gli ospedali non solo quelli di Philadelphia. Ma ha dall’altra parte il genio maligno gli propone un avviso uguale e contrario che gli intima di scendere all’inferno per poter fotografare Lucifero.
Eccoci allora a Porbandar. L’acqua è ancora più alta. Fino al petto, questa volta. Gli stivali da pesca non servono a granchè. Rispondendo ad una forma di superstizione rimette le sue vecchie scarpe da tennis; la macchina fotografica sulla testa, e scende per le strade.
Sta quattro giorni in quelle condizioni. I piedi gli si riempiono di piaghe; la pelle assume una consistenza quasi burrosa. Qualunque cosa solo vagamente affilata la apre come fosse un bisturi. Sono quattro giorni di sanguisughe. Vanno via con il sale, quando stanno più strette di una fidanzata alla stazione con un treno in partenza allora le brucia, e si prende anche tutta una dose di dolore con cui dare tono alle fotografie. Come se fossero più vere. Perchè scattate attraverso una sofferenza.
McCurry si deve compromettere. Scende in un’acqua putrida in cui galleggiano immondizie, carcasse di animali. “C’erano topi, cani e mucche morte che galleggiavano e che cercavo continuamente di evitare”, dice.
Una delle prime edizioni del libro di questo progetto, pubblicato nel 1988, chiamato Monsoon, aveva in copertina un’altra delle foto simbolo di McCurry. Un ragazzo aiuta un altro a salire su una pietra; alle loro spalle una immensa cascata che a giudicare dal colore non ha nella purezza la principale qualità dell’acqua che la costituisce. I due hanno un ombrello, irrisorio in confronto a quel che sta loro intorno. Dalla foto non si nota, ma McCurry ha insistito molto nelle sue interviste e nei suoi libri: in quel momento c’era un acquazzone tremendo e la pioggia era talmente fitta che la visibilità era praticamente ridotta della metà. Si capisce allora che la foto assume proporzioni se possibile ancora più catastrofiche. L’uomo impotente contro l’aspetto distruttivo della natura. Il richiamo di Shiva (la divinità del trimurti che distrugge), ma dentro il vortice la mano che si tende. L’aiuto. L’Altro.
Poco dopo questa foto McCurry finisce all’ospedale. Sta fotografando da un ponticello di legno. Ma l’umidità ne ha indebolito radicalmente la struttura e dopo uno scatto a McCurry cedono i piedi. Cade, e quando la gravità lo porta attaccato a terra la sua testa sbatte contro una roccia. Lui perde conoscenza. Viene trasportato in ospedale, rimane due giorni. Di fianco sta uno a cui hanno amputato la gamba. Non fa che lamentarsi, tutto il giorno e tutta la notte. Dall’altra parte invece c’è un uomo ammanettato al letto. Le infermiere sono suore, e corrono avanti e indietro. C’è un fracasso terribile, ogni tanto qualcuno urla e le mosche sembrano le vere proprietarie delle corsie. Resiste un giorno. Beve meno che può perchè è terrorizzato dalla sporcizia che contamina qualunque cosa. Il giorno dopo vogliono portarlo a fare delle radiografie. Appena esce dalla stanza si rende conto che è molto peggio di quel che aveva avuto modo di vedere. C’è sangue ovunque, dalle pareti al soffitto. Decide che no, non è proprio cosa. Raccoglie quello che ha e le sue poche energie, firma, esce. Passa qualche settimana, ricomincia a seguire il monsone che nel frattempo si è spostato più a sud. Allora torna in Birmania, poi nelle Filippine, Indonesia, Australia. Il monsone che corre, lui che insegue fotografando le rovine di una civiltà che una volta l’anno perde tutto e deve ricominciare da zero. Ogni anno. Sempre.“La metà della popolazione mondiale dipende dai capricci di questi venti. Questa è la realtà e il suo ricordo mi accompagnerà sempre”.
Nel 1984 vince il primo premio nella categoria “natura” del World Press Photo. Lo stesso anno ne vince altri tre, in altre categorie. Non è una foto di acqua. Al contrario. E’ la foto di di una tempesta di sabbia.
Nel 1961 LIFE pubblicò un servizio sul monsone nel sud-est, realizzato dal fotografo Magnum Brian Brake. Steve McCurry aveva undici anni. Il suo monsone copre un paio d’anni, dalla metà del 1982 alla metà del 1984. Ci sono foto in Sri Lanka, in India: a Delhi, Varanasi e decine di piccole cittadine di pescatori. Poi la Birmania. Ma oltre: Cina, Indonesia, Australia. Nel Nord, intorno a Darwin, per fotografare la convivenza degli aborigeni con il monsone.
Per questo la seconda foto è un compromesso. “Solo se sei disposto a correre il rischio, solo se sei completamente convinto, allora sei pronto. Le belle foto sono in quell’acqua sporca, non puoi proteggerti, stare ai margini, un po’ fuori e un po’ dentro: se la gente è sommersa fino al collo devi essere dentro con loro, non c’è separazione, non puoi stare sulla sponda a guardare ma devi diventare parte della storia e abbracciarla fino in fondo”.
(tutte le fotografie sono tratte da stevemccurry.com)
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Bello
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tanto di cappello non solo per le fotografie ma per il suo spirito e la sua costanza.Non riesco a immaginare quanto spirito di sacrificio possa aver posto nei suoi reportage, credo proprio ci vogliano dei “signori attributi” per affrontare determinate situazioni. La sua fotografia è una continua conquista,però che incredibili risultati!
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