Steve McCurry – Fiabe dall’india (3/6)

L’articolo che segue è la terza parte della storia del fotografo americano Steve McCurry. La seconda parte la trovate qua, la prima qui. Ci sono poi la quarta parte, la quinta parte e la sesta parte.

La terza foto è la fiaba raccontata, di un posto lontano.
Un treno nero e tanto fumo. Due uomini, al centro della foto, abbarbicati sul muso della locomotiva.
Alle spalle, in secondo piano e abbastanza sfocato da poter essere un sogno, il Taj Mahal. Siamo ad Agra, in India, ed è il 1983.

Workers move a steam locomotive at the railway yard in Agra, near Taj Mahal, Pradesh, India, 1983

Nel 1978 McCurry lascia il giornale di Philadelphia per il quale lavora come fotografo per partire verso l’India, ed è una storia già raccontata. Aveva viaggiato in Africa e in Sud America. Un anno l’aveva passato a rincorrere le donne d’Europa, cercando di consumare quel poco che era rimasto del fascino liberatore dell’americano nel vecchio continente. Mancava quella parte di mondo, e c’era da rispondere ad una chiamata, quasi fosse una forma di rivelazione.

Con duecento rullini parte per l’India, ma a sole due settimane dall’arrivo, a Kodaikanal, una città del sud nello stato del Tamil Nadu, prende l’amebiasi, dopo essere stato a contatto con un cane idrofobo. Deve stare fermo per un po’, per le iniezioni antirabbiche. Gli capita per le mani un libro di Paul Theroux, The Great Railway Bazaar. Un classico della letteratura di viaggio, un’anticipazione dell’India vista dal treno che poi sarà anche uno dei leitmotiv di Un indovino mi disse di Tiziano Terzani.
Quel viaggio deve ripercorrerlo. Foto per foto, deve mostrare quel che le parole non sono in grado di far vedere. È bloccato, allora si prepara. Pensa agli scatti, ai luoghi. Ma il tempo non è ancora maturo. Guarirà, si sposterà a nord-ovest e incontrerà i mujaheddin e l’Afghanistan sulla sua strada, poi i lavori commissionati dai grandi magazine e i premi.
Poi l’amore con l’India, incubato per necessità per qualche anno, torna ad esplodere.
Non è un caso se le foto più significative del progetto sui monsoni, in termini sia tecnici sia emozionali, siano tutte foto scattate in India. L’India è per McCurry quello che il Kenya fu per Karen Blixen. È New York per Holden. Riesce sempre a catturarne un aspetto evidente, ma che un occhio non allenato al particolare potrebbe non cogliere. Così nel 1983, in preparazione del progetto dei monsoni che arriverà, comincia a scattare una serie di fotografie interminabile; chiusa dentro qualche libro, ogni tanto, senza mai avere la pretesa di finire. Mentre aspetta il monsone chiede ed ottiene di ripercorrere le storie del libro di Theroux. Glielo finanziano. L’India e i treni. Una rete di trenta milioni di passeggeri al giorno. E vi basta aver viaggiato anche solo una volta nella vita per sapere che tipo di umanità variabile si incontra nelle stazioni. Mettete l’apice di un esponenziale, ecco cos’erano le stazioni dell’India.
Cinque mesi di viaggio: dal Khyber Pass (Pakistan) al Chittagong (Bangladesh). Per chi conosce poco la geografia vuol dire dall’estremo nord del sub-continente all’estremo sud.
Perchè questa cosa dei treni? “Gli aerei sono troppo costosi per la maggior parte degli indiani, ma il treno è alla portata di tutti. Di conseguenza, i treni e le stazioni sono sempre pieni di gente, sempre affollati”. Ecco la risposta. La gente, nel posto che gli appartiene.

Le stazioni indiane – dice McCurry – sono un microcosmo del paese. La vita delle persone si svolge davanti ai vostri occhi. Tutto avviene in pubblico: mangiare, dormire, lavarsi, prendersi cura dei bambini, concludere affari di ogni tipo. I chai wallahs vendono tè, mucche e ci sono scimmie che si aggirano in cerca di cibo; i passeggeri sgomitano per prendere il biglietto e il rumore della folla ricorda quello di un esercito all’assalto. Ci sono anche moltissimi piccoli artigiani che lavorano nelle stazioni […]. Uno ripara del lescarpe, un altro taglia i capelli o fa la barba ai viaggiatori. La maggior parte dei barbieri che lavorano nelle stazioni dispone solo di una sedia e di una bacinella con un po’ d’acqua, nient’altro.

La società indiana è rispecchiata dalla natura stessa dei treni. Locomotive vecchie e arrugginite, carrozze fatiscenti. Ma tutto sommato un sistema ferroviario che funziona. Il treno arriverà a destinazione. Magari in ritardo, magari secondo mille variabili. Ma arriverà. Ed è una realtà trasmessa anche dalle classi del treno. Prima, seconda, terza e tetto. I più poveri arrampicati sopra al vagone, tanto di gallerie non ce ne sono e se ci sono si abbraccia il ferro con la pancia.
Fotografa un uomo sul tetto in Bangladesh, sopra un ignaro (forse) passeggero occidentale. Oppure i contadini che portano fieno al mercato, in India. O il passaggio del vassoio di tè da una carrozza all’altra, con il treno in movimento. Scatta esposto quasi completamente dal finestrino, mentre un assistente, cioè un ragazzo del posto che lo accompagnava e traduceva per lui, lo tiene per le gambe.
McCurry fotografa ispettori di binari e operai della manutenzione. Persone, treni, percorsi, storie. “La stazione è un teatro sul cui palcoscenico vengono rappresentate tutte le vicende immaginabili. Non c’è nulla di cui i treni non siano stati testimoni.”

INDIA-11443

Passeranno dieci anni dall’esperienza dei treni ad un’altra esperienza che maturi una continuità rispetto al territorio Indiano. Nel 1993 si concentra su una sola città. La porta dell’India. Bombay. Una città pazzesca, la New York dell’india. Un porto, un centro commerciale, un centro industriale, un centro di servizi. Tutto concentrato: 13 milioni di persone in 223 miglia quadrate. Una densità da far spavento alla speculazione edilizia. Nel mezzo di tutto questo la solita variabilità di ricchezza e povertà. Nel 1993 e nel 1994 ormai conosceva molto bene la città. Non era un’esperienza nuova, ma gli occhi del fotografo hanno bisogno della novità. Dice McCurry: “il mio lavoro riguarda il soggetto, il contenuto. C’è anche un lato estetico, ma fare il fotografo significa innanzitutto narrare una storia”. McCurry vuole spiegare Bombay (oggi Mumbai) nel più classico dei canoni funzional-strutturalistici. Tante parti perfettamente integrate in un organismo caleidoscopico e diversificato.
Le strade di Mumbai allora sono il palco in cui si svolgono la maggior parte dei set. Il confronto tra l’aspirazione indiana (rappresentata dalla città) di proiettarsi verso il futuro, di essere una paese moderno affascinava McCurry. Perchè questo aveva come contraltare delle condizioni precarie di qualità della vita. Gli slums, i mendicanti, gli esclusi dal processo. Così all’interno di questi anni di fotografie furono compresi anche questi due poli. Da un lato la Bollywood delle star, dall’altro Dharavi, una delle più grandi baraccopoli dell’intera Asia. Celebre e spietata è la foto che scatta ad una donna che gli chiede l’elemosina. Lui è all’interno del taxi, con l’aria condizionata. Lei, con una bambina in braccio, si avvicina al finestrino. Fuori diluvia ed è caldo e umido. Dentro è il clima controllato di una tecnologia che viene dall’occidente, importata per far stare bene i turisti. Il taxi serve a loro, la maggior parte degli abitanti della città non se lo possono permettere, così come non possono permettersi una macchina di proprietà e mille altre cose. È un attimo, e lui scatta.

hic eh nunc

In ogni progetto c’è il momento di pericolo. La vita dei reporter è una vita di esposizione, e capita di fare degli scatti che non sono graditi.
McCurry riconosce nella religione induista il vero collante di una città eterogenea come Mumbai. Tra Agosto e Settembre di quell’anno copre il Ganesh Chaturthi, una festa di dieci giorni che celebra la nascita del dio con la testa di elefante, associato alla prosperità e al successo. Si portano statue immense, anche alte fino a cinque metri, e accompagnati da danze e canti si va verso il mare, dove queste statue vengono adagiate. La spiaggia principale è Chowpatty beach. McCurry arriva alla spiaggia l’ultimo giorno, dopo averne passati nove in giro per le strade e nei laboratori dove si fabbricavano le statue. In memoria dei monsoni cammina con l’acqua dell’oceano fino alla vita. Scatta, osserva. Comincia a scendere la sera e questo è testimoniato anche dall’ultima foto scattata. Perchè poi viene circondato da un gruppo di indiani ubriachi che cominciano a picchiarlo. Ad un certo punto finisce sotto e sotto rimane. Viene tirato fuori da un contatto che lo aveva invitato a fotografare la cerimonia. McCurry boccheggia, scappa dalla spiaggia. Rullini bagnati, quasi tutto da buttare.
Eppure è parte del mestiere. Non c’è parte di Calcutta o di Mumbai in cui non mi sentirei a girare da solo, giorno e notte, con la mia attrezzatura. Non esiste sul pianete un luogo più sicuro, dice McCurry.

L’india di McCurry non finisce però. Il periodo ’95-’96 lo passa in Kashmir, una contesa regione tra India e Pakistan, esattamente divisa a metà tra le due sovranità formalmente in guerra da una vita. Segue i pescatori, i fiorai sulle barche, appollaiato a poppa di quelle canoe affusolate. Il resto è colore.

Flower-Seller-Dal-Lake-Kashmir

L’India di McCurry durerà fino a che lui non smetterà di scattare fotografie. Il progetto definitivo sull’India si potrà fare solo retrospettivamente. È un amore nato dalla scintilla di una curiosità. La mitologia di un posto fiabesco, che già lasciava naufragare la fiaba a favore di un ben più pragmatico posto nei BRIC, nei paesi con un tasso di sviluppo rapidissimo e feroce.
La terza foto è una fiaba perchè l’India di McCurry non esiste più, sicuramente come l’ha mostrata lui. Forse non è mai esistita. Era solo la astrologica combinazione di colori invisibili al resto del mondo, per un momento, che qualche Dio indiano gli dava davanti agli occhi, per scattare una fotografia. Quel che è certo è che i binari al Taj Mahal oggi non ci sono più. E gli scambi non sono più quelli documentati da lui. Quella foto, con il treno e il Taj Mahal sullo sfondo, già pochi anni dopo il 1983 non si sarebbe più potuta scattare. Come tantissime altre. Se l’India ha assunto il significato che ha oggi nell’immaginario, una tessera significativa della creazione di esso lo si deve anche alla potenza delle immagini di McCurry girate ovunque. Ma quelle erano testimonianze di un paese forse esistito solo intorno ad un fotografo americano con la sua macchina fotografica, e l’hic et nunc del suo scatto, niente più.

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4 pensieri su “Steve McCurry – Fiabe dall’india (3/6)

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