Il pezzo che segue è il primo di una serie di sei articoli che verranno pubblicati sul fotografo americano Steve McCurry. Seguono la seconda parte – terza parte – quarta parte – quinta parte – sesta parte.
La prima foto è un affidarsi.
Si vedono tante persone di etnia Pashtun con il capo chino. Davanti a loro, a terra, una stuoia ricoperta di vecchi fucili sovietici. Al centro se ne riconosce uno tenuto insieme a fortuna, sperando che faccia il suo dovere quando la storia chiama e una battaglia, o l’atto di una resistenza, deve fare il suo corso. Ci sono più uomini che fucili. La foto è tagliata, il quadro è limitato. Ma è una realtà. Le armi non ci sono, non ancora; non una per ogni combattente. Ma arriveranno, ci sarà un alleato forte. Il più forte di tutti, che farà arrivare missili contraerei dal Pakistan, a dorso di mulo.
Le persone nella foto sono mujaheddin. I combattenti della jihad, della guerra santa islamica. Ma è tradizione di una vecchia stampa che dava poco conto alla terminologia specifica. Oggi dire mujaheddin è un cosa che inquadra un combattente verso un sistema di fondamentalismo che invece, dentro quella foto, è molto più sfumato verso l’appartenenza ad uno specifico territorio.
Dal 1973 l’Afghanistan è una repubblica. Traballante; sono gli anni settanta del comunismo mondiale. Infatti traballa un po’ troppo, zoppica, e poi quando cade sarà guerra. Invadono i russi, ancora. I comunisti d’Europa sono chiamati all’ennesimo atto di fede cieca verso un imperialismo rosso. Dopo la Polonia. Dopo l’Ungheria. Dopo la Cecoslovacchia.
I russi arrivano per combattere i mujaheddin, che quel governo repubblicano fantoccio russo non lo vogliono. Arriveranno anche gli Stati Uniti, ma dall’altra parte. Finanzieranno proprio coloro cui faranno una guerra all’inizio del millennio successivo, cosa che a guardarla oggi suona addirittura ossimorica. Nel frattempo, da una parte URSS, dall’altra USA. Una guerra tra loro, ma con pedine estranee, come fu la Corea nel ’50 e come fu poi il primo Vietnam.
Steven McCurry ha ventinove anni. Nato a Philadelphia nel 1950, un anno dopo quel cantante che a Philadelphia non nacque, ma che le dedicò una delle più belle canzoni della musica leggera: Streets of Philadelphia; Bruce Springsteen. McCurry si è laureato alla Penn State. Cinema e teatro. La fotografia non c’era. Non ancora. Non ci è nato con il pallino della fotografia in testa. Voleva fare il regista.
Alla Penn State comincia a lavorare per il giornale dell’università. Chiedono delle foto, lui va, scatta. Prende la mano, soprattutto prende ad appassionarsi. Passi timorosi su una strada che dura una vita. I passi dell’inizio, quelli del bambino nel mondo, quelli di chi sa che la strada è pazzesca, ma c’è da lasciare indietro qualcosa o tanto. Nel frattempo si è laureato, la fotografia gli da il primo lavoro. Dura tre anni, fino al 1978. Poi c’è l’epifanica consapevolezza che la propria storia, quella che ognuno di noi è destinato a raccontare, abita da un’altra parte. Potrebbe essere Chattanooga quanto Capo Horn. Lui non lo sa. Sa solo che è lontano, in un posto dove l’inglese non lo si parla, dove i pantaloni li si nasconde sotto delle tuniche, dove si bevono infusi e dove il cielo ha un colore che le persone che vengono dall’occidente fotografano per portarsene un pezzetto a casa e guardarlo la sera sul divano, mentre in televisione vanno i quiz a premi.
Per tre anni lavora per un quotidiano di Philadelphia, poi lascia tutto per cercare qualcosa a cui non sa dare un nome nemmeno lui. Una storia, tante storie. Forse solo una foto. Quella foto. La foto di una vita. È il 1978 e McCurry, di anni, ne ha 28. Compra due centinaia di rullini e un biglietto di sola andata per quello che sarà l’amore della sua vita: l’India. Come tutti i corteggiamenti, il primo incontro è transitorio. Scatta qualcosa ma c’è da mettere tempo in mezzo, c’è da assorbire tutto quel cambiamento, c’è da mettere i confini a quella narrazione. Rimane in India per un anno, vende qualche servizio a delle riviste. Dopodichè comincia a muoversi verso nord, nel Kashmir – cui poi dedicherà un progetto intero – e poi nel Pakistan.
Succede, alle volte, che le cose vengono da te. Quando sei al posto giusto di un ordine che il più delle volte stenta a farsi riconoscere, a cui i fedeli danno nomi altisonanti di divinità onnipotenti che parlano per mezzo di uomini votati alla santità. Altri fanno loro solo sfumature di questo. In tutti – credenti e non – c’è l’idea che quella consequenzialità necessaria, sia essa data da Dio o dal caso, segue la logica del fatto che agli eventi non ci si possa sottrarre. Che siano loro, in un certo senso, che colpiscano noi, e non viceversa.
Fare il fotografo vuol dire innanzitutto fare il viaggiatore. Che non vuol dire viaggiare. È un’attitudine all’alterità. Una propensione bulimica verso le storie degli altri, verso quello che sta dietro gli occhi. Da rubare e da prendere per sè, fino a che qualcuno non te
lo ruberà a sua volta.
McCurry dall’India si è spostato verso i monti del Khyber Pakhtunkhwa, ad ovest dell’Himalaya.
L’Afghanistan è ad un passo. Siamo a maggio, 1979. Si combatte tra mujaheddin (ribelli) ed esercito lealista, come tutte le guerre civili. Lungo in confine con il Pakistan, in quelle terre battezzate alla sofferenza perenne e ad una pace introvabile, giacciono centinaia di campi profughi. Sarà proprio McCurry uno dei primi a fotografarli, pochi anni dopo, e a rendere uno di questi profughi, una ragazzina appena dodicenne con degli occhi verdi che poche volte si sono visti belli così, uno dei volti più famosi di sempre.
McCurry cerca nei dintorni di una piccola cittadina, Chitral. Incontra due afghani. Parlano. Loro raccontano della guerra e della devastazione dei loro villaggi. Parlano degli uomini che sulle montagne combattono, sempre meno di quelli che servono, sempre male equipaggiati, ma sempre spinti da una cosa nello stomaco che non li fa fermare, nella ragione o nel torto che sarà consegnato alla storia.
In un inglese approssimativo gli dicono che lo portano di là, oltre il confine.
Copri la nostra storia. Sei un fotografo. Racconta cosa sta succedendo alla tua gente, gli dicono.
McCurry sa benissimo che quello potrebbe essere un diamante grezzo e sa benissimo che di colpi così, inaspettati e potenziali, ne capitano pochi nella vita di un fotografo. Lui non è nessuno. Non ancora. Ha fame, ma allo stesso ha una ragionevole paura dell’ignoto che quell’incontro porta con sé. Deve andare in zona di guerra, entrare clandestinamente in un paese in guerra civile formalmente protetto dai sovietici, nemici giurati della sua patria americana. Ma questo è nulla in confronto alle mani nelle quali si sta mettendo. Due sconosciuti, adesso. Dopo, se tutto va bene, un mucchio di ribelli barbuti e montanari che parlano unicamente dialetti pashtun, tigiki o harazi.
La mattina dopo i due vanno a chiamarlo. Lui non vorrebbe andare, ma allo stesso tempo in una terra antica il torto alla parola data è un sacrilegio imperdonabile. McCurry si fida di loro: si mette totalmente nelle loro mani. La sua vita dipende da loro. Lui è solo un fotografo quasi trentenne dal fisico troppo esile per poter anche solo pensare qualunque azione violenta. Si affida, come solo i viaggiatori possono fare. E avrà ragione.
Si veste di abiti tradizionali e attraversa illegalmente il confine. Ha con se due corpi macchina, quattro obiettivi, un coltellino svizzero e delle noccioline da aereo. Nient’altro. A Filadelfia, dirà poi, lasciai tutto per vivere esattamente quel tipo di realtà. Una cosa che più tardi verrà chiamata fotogiornalismo, e che diventerà uno dei cardini dell’informazione contemporanea.
Rimane tre settimane oltre il confine. Fotografa soprattutto loro, i mujaheddin, durante le azioni della giornata. È qui che inizia una carriera fondata graniticamente sul ritratto. I ritratti dei guerriglieri, nel loro mezzo busto lungo come un kalashikov, sono l’inizio di un lirismo che segnerà il ritratto come genere fotografico, nelle decine che verranno negli anni successivi.
Fotografa in bianco e nero – unico suo progetto interamente in questo tono. Il colore verrà dopo, e nonostante lui sostenga che ogni foto sia un elemento a sé, interdipendente dalle altre del progetto, ma a suo modo monadica per estetica e struttura, per questo primo progetto non aveva abbastanza pellicole a colori, e mescolare colore e bianco e nero non avrebbe reso allo stesso modo che dare un tono unitario e mantenerlo. Da questo progetto, dirà lui, ha imparato il contenuto. Senza colore, l’importante è quello che sta nel quadro. Cosa mostrare, non come colpire l’occhio con il colore.
I suoi grandi riferimenti, dice a Mario Calabresi in un suo bel libro (Ad Occhi Aperti, Contrasto, 2013) sono Koudelka e Henri Cartier Bresson. Il Koudelka degli Zingari perchè viveva con loro, mangiava con loro, dormiva con loro. Solo dopo li fotografava, e allora, da sé, le foto avevano una verità biblica dentro di loro, come una forma di rivelazione. McCurry mette in pratica questa lezione del fotografo cecoslovacco con i mujaheddin. Poi il Koudelka di Praga ’68. Per aver preso la storia dentro un rullino e aver testimoniato al mondo cose che la penna non aveva modo di dire.
Cartier Bresson invece, dice McCurry, per l’eleganza, la completezza e la perfezione degli scatti.
Prima di tornare in Pakistan – poi tornerà altre due volte nei mesi successivi in Afghanistan – McCurry capisce che quelle foto non avrebbero mai passato il controllo. Carica nelle macchine due rullini con foto inutili. I rullini veri li nasconde nelle mutande, nella calze e nel turbante. Provvidenziale, perchè i rullini sterili vengono confiscati, quelli importanti non li trovano. Appena di là spedisce tutto ad un suo amico fidato negli Stati Uniti e la lascia la storia a fare il suo corso.
McCurry abbandona le montagne afghane prima dell’estate del 1979. Aveva fotografato una resistenza piccola e senza possibilità di successo. Ma arcigna. Combattiva. Radicata. Feroce nella motivazione, con Allah dalla sua parte. Quella guerra durò dieci anni, fino al 1989, quando il mondo come allora era conosciuto venne giù come un castello di sabbia lasciato a prendere le onde di un mare un po’ più incazzato.
Nei tre mesi successivi le forze della resistenza si moltiplicarono. Intere zone furono lasciate al totale controllo dei mujaheddin, e i russi decisero di intervenire direttamente, mandando 6000 militari a Kabul. L’invasione vera e propria venne il giorno di Natale, 1979. Ma già il 3 dicembre il più importante quotidiano nel mondo, il New York Times, era uscito con una prima pagina sulla guerra in Afghanistan. In alto a sinistra c’è la foto di un miliziano che prega “prima della battaglia.” Magari non c’è stata nessuna battaglia dopo quella preghiera, perchè la foto è stata scattata tre mesi prima da uno sconosciuto fotografo americano di Philadelphia che si chiama Steven ma che tutti chiamano Steve. L’Afghanistan è bloccato, le uniche foto che ci sono sono le sue. Escono dappertutto. Paris Match, Stern, Time, Newsweek, LIFE.
Nel 1980, a trent’anni, McCurry vince la Robert Capa Gold Medal per la copertura dell’Afghanistan. La motivazione dice: “per il miglior reportage fotografico dall’estero, realizzato grazie ad eccezionali doti di coraggio e intraprendenza”. Istantaneamente, diventa un fotografo che tutti vogliono. Perchè da sconosciuto e freelance senza incarico ha portato ai giornali un progetto pazzesco, e i giornali sanno che non può sbagliare e non sbaglierà. Torna dall’Afghanistan e lo assumono, insieme, National Geographic, TIME e ABC news.
Meno di due anni prima aveva mollato tutto per partire con un biglietto di sola andata per l’India.
Meno di un anno prima si era fidato di due sconosciuti che, senza parlare bene la sua lingua, gli avevano detto che dall’altra parte delle montagne c’era una guerra che il mondo ancora non conosceva e che lui poteva raccontare prima di tutti gli altri. Lui aveva titubato. Passi leggeri su quel confine labile tra una vita di realizzazioni e una vita di possibilità naufragate. Sliding doors, dicono gli americani. Cosa sarebbe successo se…Lui a quei due aveva creduto. Aveva detto Va bene, la vostra storia la racconto io. Ma voglio portare a casa la pelle. Loro avevano detto Sì.
McCurry si becca le pallottole addosso alla macchina su cui viaggia e gli piovono bombe sulla testa. Ma non rischia mai per colpa dei suoi soggetti. Rischia la vita perchè è zona di guerra. La lealtà appartiene ad un epoca in cui la saggezza era cosa di terra, e vita. L’Afghanistan è una di quelle terre.
Per questo la prima foto è un affidarsi, ed è l’inizio di uno dei migliori fotografi di sempre.
(tutte le foto sono tratte da stevemccurry.com)
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Un post più che interessante che riporta particolari di McCurry a me prima sconosciuti.Continuo la piacevole lettura…
Grazie
Daniela
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Complimenti per il tuo modo di scrivere e descrivere!
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Grazie, un saluto.
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Brividi.
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