Steve McCurry – Distruzione (4/6)

L’articolo che segue è la quarta parte della storia del fotografo americano Steve McCurry. La prima parte la trovate quaLa seconda qua. La terza parte è qui. Seguono la quinta partesesta parte.

La quarta foto è distruzione.

Macerie, nel cuore del mondo. Il fumo, la polvere. Rovine di un posto, resti di un simbolo. Nelle coscienze di tutti una spaccatura, una crepa di paura da cui poi, come edera, monterà la fobia di un’insensatezza chiamata fondamentalismo, perchè da quella crepa usciranno anche (tra gli altri) Madrid 2004 (191 morti), la metropolitana di Londra 2005 (56 morti), Boko Haram in Nigeria, l’attentato a Charlie Hebdo di Parigi, due guerre (Afghanistan e Iraq), l’ISIS.
“Siamo tutti americani”, scriverà sulla prima pagina del Corriere del 12 settembre Ferruccio De Bortoli, il direttore, parafrasando Kennedy di fronte al muro con i berlinesi. Una bella frase, che non trova però terreno fertile. Mai come prima il mondo si spacca in due, perchè in quella crepa viene incubata la rabbia e l’orgoglio o la stupidità delle più svariate dietrologie complottiste sull’autolesionismo americano orchestrato da CIA, FBI, ebrei, massoni, Bilderberg, Trilaterale…

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Undici settembre 2001. Alle 8.46 del mattino il volo American Airlines 11 si infila come un coltello nel burro nella Torre Nord del World Trade Center di New York, nel Financial District, nel sud dell’isola di Manhattan. Alle 9.03 viene ripetuto quell’incubo da cui tutto il mondo ancora non si è svegliato. Altro aereo, questa volta il numero 175 della United Airlines, che sarebbe dovuto arrivare a Los Angeles partendo da Boston. Si capisce allora come il primo attentato era una pallida prova generale, perchè nell’economia degli obiettivi di Al Qaeda è il secondo aereo la mossa pensata dall’inizio per mettere in ginocchio il più importante paese del mondo intero. Con il primo aereo gli occhi del mondo si puntano sulla torre fumante e sventrata. Arrivano le telecamere e tutto va come gli strateghi di Bin Laden avevano previsto: l’America deve vedersi crollare. Attraverso la loro stessa forza, che si fa debolezza. E quando il secondo aereo centra la Torre Sud gli occhi di tutto il mondo vedono che non c’è posto abbastanza sicuro e abbastanza protetto da essere inaccessibile. L’orrore si vede. E si vede in diretta. Ma c’è da tornare indietro di quasi un decennio. Un’altra guerra. L’Iraq da una parte, gli Stati Uniti leader della coalizione ONU dall’altra. 1990. E McCurry era anche là a fotografare le macerie (morali e fisiche) di una terra sventrata dalle bombe.

Nell’agosto 1990 l’Iraq di Saddam Hussein invade il piccolo ma ricchissimo (di petrolio) Kuwait. Militarmente c’è poca storia. Quell’area è una polveriera; lo è adesso, ma lo è da mezzo secolo. Dopo la guerra tra i ribelli afghani (mujaheddin) ed esercito leale al governo fantoccio sovietico, un’altra guerra, negli stessi anni, era cominciata. Dal 1980 Iran e Iraq si combattevano, in una guerra che è andata avanti per otto anni. Nel 1988 i due paesi accettano la tregua ONU. Il motivo è semplice: nessuno dei due paesi può vincere, e la guerra è un trascinarsi di vittime senza vittorie. Quel che l’Iraq non aveva digerito della guerra con l’Iran era la posizione statunitense. L’invasione del Kuwait era un banco di prova. Una sfida agli americani. Loro, attraverso la risoluzione ONU, accentano il guanto. Il presidente era Bush senior, il figlio, dieci anni dopo, dichiarerà ancora guerra all’Iraq, finendo quello che l’amministrazione di suo padre non aveva compiuto. Nel 1993 eliminare Saddam Hussein fu sconsigliato perchè avrebbe portato ad una situazione di estrema instabilità. Quando gli americani torneranno in Iraq Saddam verrà catturato e impiccato, dopo una lunga prigionia.

McCurry fotografa la guerra in Kuwait in quello che rimane dei territori sfregiati dalle bombe. “Dopo la tempesta”, si chiama il progetto. Per la prima volta nella sua carriera (la seconda arriverà proprio con l’Undici settembre), il fotografo deve misurare gli equilibri di un coinvolgimento emotivo fortissimo. Fotografare l’orrore, ma con quale e quanto coinvolgimento? Da una parte il rischio è di mostrare la ferocia di una guerra e di una distruzione senza però documentare a sufficienza. Una fotografia è uno spazio ridotto, e bisogna scegliere cosa mostrare.
Dall’altra parte la ricerca di una obiettività neutra può far scivolare verso una certa asetticità.
McCurry avrà modo di paragonare l’esperienza di quel tipo di fotografia con il mestiere del chirurgo.
“Non bisogna lasciarsi sopraffare da quel che si vede. È come quando un chirurgo perde un paziente sul tavolo operatorio. Per quanto turbato, deve guardare alle cose con un certo distacco per poter tornare in sala operatoria il giorno seguente. Se è troppo impressionabile non può svolgere bene il suo lavoro. Di fronte alle scene più atroci, bisogna tenere a mente che ci si trova lì per raccontare una storia, perchè quell’informazione è necessaria.”

McCurry arriva in Kuwait nel 1990, mandato dal National Geographic per rendere conto al mondo della catastrofe ambientale causata dall’incendio volontario dei pozzi petroliferi da parte delle truppe irachene in ritirata. Le foto lasciano poco spazio all’interpretazione. La distruzione è totale. Saddam era sconfitto (almeno diplomaticamente, e in parte anche militarmente) e come ripicca aveva dato ordine alle truppe di non lasciare nulla dietro di sè, dalla città alla campagna. Memorie di Attila, in un luogo dove l’erba comunque non sarebbe cresciuta.

Kuwait

Arriviamo così a quella mattina di una decina di anni dopo. Un altro tipo di orrore cui McCurry è chiamato a testimoniare. La mattina del dieci settembre SteveMcCurry atterra a New York dopo trenta ore di viaggio. Torna dal Tibet. Finalmente a casa per un po’ di riposo dopo anni intensissimi. La mattina dell’undici è nel suo studio vicino a Washington Square. Suona il telefono. Guarda fuori dalla finestra, dice la voce all’altro capo.
Lui guarda e vede la torre in fumo. Oltre all’istinto c’è anche molta esperienza, a questo punto. Non sono lui percepisce l’importanza di quel che sta avvenendo. Lui sa che ha di fronte uno di quegli eventi che verrà studiato nei libri di storia come uno di quei tre-quattro eventi chiave della contemporaneità. Va sul tetto dello studio, comincia a scattare, va avanti per una quarantina di minuti. Poi circa alle dieci la Torre Sud crolla. Mezz’ora dopo implodono anche i quattrocento metro della torre Nord. Un simbolo ferito è una cosa. Un simbolo che crolla è qualcosa di inimmaginabile. McCurry, con la sua assistente Deborah Hardt, si dirige verso quello che verrà denominato Ground Zero. Attraverso qualche conoscenza e qualche via secondaria riesce a superare le barriere della polizia, che provava a contenere oltre i danni anche la curiosità, sapendo che c’era tanto di molto più importante da fare che organizzare blocchi per i curiosi. La piazza del World Trade è un inferno. Ci sono due torri altre quattrocento metri l’una distrutte, collassate sopra tutto ciò che c’era di più basso, a terra. Crollando hanno distrutto tutto ciò che stava loro intorno. Ci sono tremila cadaveri da recuperare, incendi ovunque da spegnere e contenere. È un panorama postapocalittico, surreale e alieno. Le autorità intimano più volte a McCurry di lasciare l’area, soprattutto per la sua sicurezza. Ma McCurry non sente ragione, e ogni volta cambia luogo, fa giri concentrici e torna nella devastazione. Fotografa i pompieri e i poliziotti, fotografa chi scappa interamente ricoperto di polvere. Lui che è il re della fotografia a colori saturi scatta foto monocromatiche. Ma non per scelta, perchè tutto è velato di una pesantissima polvere grigia.

A partire dal tredici di settembre i controlli furono impenetrabili e McCurry non ebbe più accesso a nessuna delle aree di Ground Zero. Mentre le sue foto venivano pubblicate nelle milioni di pagine di giornali e riviste che nel mondo dedicavano speciali all’evento, tra cui il volume collettivo di fotografi Magnum del dicembre 2001, lui chiudeva i negativi in un cassetto che poi non aprì più per anni.

9.11

Non hanno nulla di speciale le foto di McCurry di quel che resta del World Trade center. E proprio per questo testimoniano una ferocia inimmaginabile. Ci sono stati fotografi come Nachtway che cercavano comunque lo scatto molto tecnico. Foto incredibili. Ma McCurry ha scelto un’altra strada. Molto più realista, più semplice. Sono foto di una ferita che lui per primo aveva ricevuto, in quanto newyorkese (acquisito); in quanto americano; in quanto esponente (tra i maggiori) di chi lavorava per la libertà, documentando, fotografando, rischiando la vita per una foto.
Sappiamo quello che è successo in Kuwait perché abbiamo foto di quello.
Sappiamo il dolore e la paura perché nel mosaico di foto del nine-eleven ci sono tessere fondamentali fornite da McCurry.
La quarta foto è distruzione, niente più. Ma è parte del processo irreversibile che costituisce memoria.

“Bisogna credere che quello che si fa sia la cosa giusta, che la propria documentazione dei fatti sarà utile per qualcuno. Per me è inimmaginabile andare in un posto senza essere animato da uno spirito di modestia, di imparzialità e di giustizia. Se documento un evento tragico spero almeno che le mie immagini permettano alla gente di saperne di più, spingendo forse qualcuno a dare il suo contributo. Quando racconto una storia, creo un documento storico e credo sinceramente che ciò sia utile per le persone che sto fotografando.”

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11 pensieri su “Steve McCurry – Distruzione (4/6)

  1. Personalmente mi piacciono le foto poco costruite,quelle in cui si lascia esprimere la nuda realtà,dove la vita si racconta attraverso uno sguardo o uno scenario che hanno già molto da raccontare da sè. Le foto di McCurry rappresentano la realtà in modo sincero e genuino,sono un racconto veritiero di emozioni che rimbalzano dai suoi occhi ai nostri occhi. Un grandissimo narratore e messaggero di pezzi del nostro mondo e non lo dico solo per unirmi al coro dei suoi estimatori.
    Buona serata
    Daniela

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  2. Non bisogna lasciarsi sopraffare da quel che si vede. Credo sia questa la maggiore difficoltà di un fotografo che si è dovuto confrontare con fatti atroci, diventati storia, cioè ricordabili anche grazie alla sua fotografia! L’ha fatto con la più grande umanità e umiltà che si possa trovare nell’immagine fotografica, l’ha fatto senza lasciarsi sopraffare ma con una tenerezza che ci fa esser parte di quei fatti, con qualsiasi reazione uno possa avere, un pochino c’è stato chiunque guardi la sua fotografia; per questo un uomo così si può solo ringraziare!

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  3. L’ha ribloggato su forme d'artee ha commentato:
    Non bisogna lasciarsi sopraffare da quel che si vede. Credo sia questa la maggiore difficoltà di un fotografo che si è dovuto confrontare con fatti atroci, diventati storia, cioè ricordabili anche grazie alla sua fotografia! L’ha fatto con la più grande umanità e umiltà che si possa trovare nell’immagine fotografica, l’ha fatto senza lasciarsi sopraffare ma con una tenerezza che ci fa esser parte di quei fatti, con qualsiasi reazione uno possa avere, un pochino c’è stato chiunque guardi la sua fotografia; per questo un uomo così si può solo ringraziare!

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