A titolo personale: sino ad ora, a differenza degli altri autori di questo blog, non ho pensato opportuno scrivere alcunché riguardo all’attentato alla sede parigina di Charlie Hebdo. Ancora adesso non mi sento fare altro che condannare il gesto, tuttavia le parole del Papa in proposito hanno tirato fuori da sotto il tappeto, involontariamente secondo me, un problema che ultimamente mi è molto caro.
E vi prego, non fatemi spiegare nemmeno una volta che quando parlo di una cultura violenta non mi riferisco a quella musulmana, ma a quella di chi, in ogni parte del mondo, maschera i suoi atti crudeli con la maschera di un qualsiasi principio superiore.
Prima di tutto, il Papa non ha incitato alla violenza, non ha invitato i cristiani a reagire e, cosa più importante di tutte, non ha risposto a nessuna offesa, dato che sono stati colpiti un obiettivo ateo e uno ebraico. Il Papa ha deciso di esprimersi su una questione pubblica, che gli riguarda esattamente come a tutte le altre persone del mondo.
Ciò che più mi ha stupito delle parole del pontefice è che abbia preso il posto di un altro, addirittura un appartenente ad una diversa fede religiosa, e si sia immaginato cosa avrebbe fatto al posto suo.
(Attenzione: non sto dicendo che un cattolico non sia comprensivo ma solo che, chi ha la fortuna di credere in qualcosa in maniera così assoluta, difficilmente è disposto ad abbandonare la sua credenza per giustificarne un’altra.)
Ed è qui che sta il problema. Oltre alla cultura della non-violenza, tradotta in cristiano con “porgi l’altra guancia” e abbastanza diffusa a livello mondiale, ne esiste un’altra in cui fare del male al prossimo è lecito, se le ragioni sono giuste. Ma c’è di più, anche nella nostra visione del mondo c’è spazio per la ferocia.
L’Etica antica viveva nel pregiudizio che una vita empia non valesse la pena di essere vissuta, per il quale colui che si macchiava di un peccato contro gli Dei meritava di essere punito, e così la sua discendenza e chi gli stava attorno. Oggi, scorrendo la bacheca Facebook non è difficile trovare qualcuno invocare alla tortura o alla pena di morte nei confronti di chi ha commesso crimini efferati.
Parli di più di duemila di anni, direte; parli di episodi individuali e condannati dalla nostra cultura. E potrei anche essere d’accordo, se non fosse che, in molti ordinamenti giuridici, è previsto che gli atti commessi per legittima difesa non siano punibili, o lo siano in minor misura, in sede penale. La faccio breve: se tu mi punti un kalashnikov contro e minacci di premere il grilletto, se per puro caso ne ho uno uguale sotto la scrivania, e io ti sparo, ho agito bene.
E quindi siamo moralmente autorizzati a prendere in mano i fucili? No, reagire sul momento, al fine di evitare immediati danni per la propria incolumità, è ben diverso che agire a mente fredda. Non basta, persino agire per legittima difesa sta sul bordo di un precipizio, più vicino a cadere che a risalire, perché, come dicevo prima, siamo non-violenti. Tuttavia comprendiamo la liceità della violenza.
A questo punto è arrivato il momento di tirare fuori una tesi perché di esempi ne ho fatti abbastanza. Solo che è difficile dirlo e non so come farlo, se non così: rispettare il diritto d’espressione degli altri significa accettare ogni loro modalità d’espressione, anche quando non è la parola.
Che il Papa dica “è normale” che al signor Gasbarri, suo grande amico, “gli aspetta un pugno” illustra una semplice verità, una verità scomoda, cioè che atti del genere me li aspetto, e non solo, riesco anche a capirli, pur senza condividerli.
Una soluzione sarebbe quella di far capire, a chi la violenza la fa, che essa non è uno strumento degno di essere praticato ma, oltre a farmi tremendamente paura un mondo in cui non c’è spazio anche per la diversità più estrema e inaccettabile, credo che sia impossibile. D’altronde cosa sono le mie ragioni di fronte alla parola di una divinità?
C’è un empasse. Subisco azioni crudeli che capisco ma non condivido e a cui, proprio per quest’ultimo motivo, non posso rispondere con la stessa moneta. Gioco a Scopa, giù ci sono il settebello e il due di denari, io non ho nè il sette nè il due, sarebbe bello poter giocare un asso (la violenza) per tirar su tutto, ma non ce l’ho e so che i miei avversari invece sì. Ora, molti di noi riterrebbero giusta un’azione congiunta della NATO, un bombardamento con droni su bersagli specifici, per abbattere gli avversari troppo fortunati, ma purtroppo ai piani alti non si scomodano per una partita a carte tra amici. Una bella gatta da pelare.
Non vi dirò cosa giocherei, non vi ho detto nemmeno che carte ho in mano! Però cercherò di spiegarvi, dando per scontato che il problema del pluralismo etico rimane, cosa penso si dovrebbe fare davanti alla minaccia jihadista.
Conosco il mio nemico, so cosa mi devo aspettare da lui e allora gioco di conseguenza. Dato che non voglio fargli la guerra, intrattengo normali rapporti ma sto sempre all’erta. Nel frattempo dispongo le mie difese in virtù di ciò che prevedo farà e, se lui decide che ho detto o fatto troppo, sarò pronto per il suo attacco. Nient’altro, in rispetto della mia e della sua libertà d’espressione e sì, persino della mia libertà di blasfemia.
