McCurry, Koudelka, McCullin, Erwitt, Fusco, Webb, Basilico, Abbas, Pellegrin, Salgado. Nomi di chi ha avuto la storia sull’indice: una pressione e fotografie che sono iconiche. Sono dieci nomi, ma potrebbero essere molti di più. Dieci è un numero tondo, perfetto, testamentario. Mario Calabresi – ex direttore de La Stampa, da gennaio 2016 sostituto di Scalfari in vetta a Repubblica – corre sulle tracce di questi dieci pilastri del fotogiornalismo. Li intervista e usa la Storia come microfono e le foto come appunti. Ma fa anche di più: svela il meccanismo di una pellicola che imprime le coscienze di tutti e ne mostra la banalità della genealogia, gioco di immense intuizioni. Non c’è costruzione. Per tutti, lo si capirà, una foto è immediata descrizione di un momento irripetibile già destinato ad evaporare non appena lo si è portato in negativo a rullino (romanticherie oggi digitali). Eppure è testimonianza, traccia (Derrida) della storia degli uomini per gli uomini in rimandi di memoria. Un imperativo al guardare quel che è accaduto a Beirut, Kabul, Khendar, ecc.
Duecento pagine in dieci capitoli (uno per fotografo) in cui si raccontano le luci dei semafori che regolavano l’incrocio tra la strada della Storia e quella di una persona con l’arma più pericolosa al collo: una macchina fotografica. Cosa sarebbe stata la primavera di Praga 1968 se un Anonimo praghese non fosse stato svegliato alle 4 del mattino dallo squillo del telefono; conversazione che virò sui “non ci credo”, perchè dall’altra parte gli venne detta la frase che tutti i cittadini dei satelliti sovietici disallienati, dopo i fatti di Polonia e Ungheria ’56, non volevano sentire: “sono arrivati i russi”. Josef Koudelka era il nome dell’anonimo praghese. Alba di quel giorno prese la macchina fotografica e cambiò il mondo. Così come il soldato sotto shock, fotografato da Don McCullin a Hue, Vietnam, 1968? Quella foto trema, stampata sulla carta. I monsoni di McCurry; Le storie americane grandi e piccole di Fusco e Erwitt e i confini (politici ed esistenziali) di Alex Webb. L’Iran di Abbas e la geometria distruttiva di Basilico. Pellegrin (miglior fotografo di guerra) e gli spazio bianconeri di Salgado.
Compriamo libri per leggere e capire – rincorrere risposte a chissà quali domande. Qua Calabresi incontra, vive, conosce, spiega il fotogiornalismo attraverso la arbitraria scelta di dieci nomi e dieci stili. Fotografi contemporanei di cui si poteva sperare una parola o la concessione di una intervista che viene ottenuta. Niente formalismi, sono incontri di caffè, di case private, studi, redazioni. Per questo c’è il fattore umano, l’uomo dietro le fotografie. La ricerca di una giustizia della storia della persona oltre il fotografo. Quella paura che si fa adrenalina sotto le bombe. Cosa sta dietro le foto e dietro il coraggio sacrificale di avere sull’indice un grilletto che non spara niente, ma acchiappa la luce di luoghi del mondo che sono cambiati o che non cambieranno mai.
“Queste foto che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo – scrive Calabresi – mi hanno spinto ad andare a cercare i loro autori per farmi raccontare il momento in cui hanno incontrato la storia e hanno saputo riconoscerla”.
Libro non sulla fotografia ma sul giornalismo. Essenza pura: testimonianza di ciò che non è immediato perchè lontano. La foto, quindi, più di ogni altra cosa. Più delle parole, come ebbe a dire Domenico Quirico. Sequestrato e rilasciato, il giornalista disse: ormai in Siria sono rimasti sono fotografi.
Dimensione estetica che incontra l’etica di una professione e di un servizio (pubblico?) di informazione. Il fotogiornalismo abbatte l’idea che la cultura sia accessoria. Non ci è forse fondamentale il sapere quel che accade nel mondo senza mediazione delle parole? Una fotografia che è sintesi dei due momenti antitetici di bellezza e orrore. Da una parte l’estetica della composizione; l’arte della fotografia (la bella foto). Dall’altra l’orrore di mettere in quadro la scenografia di una tragicità assoluta (guerra, carestia, povertà, esilio ecc).
Un libro sulla libertà dell’immagine e sulla forza che trasmette, una forza del tutto umana. Un pensiero importante per tempi forsennati di civiltà dell’immagine di consumo (Instagram; fb) su cui forse gli occhi, piuttosto che aprirli, converebbe chiuderli. Non tutte le immagini sono uguali, non importa che filtro si usa.