Alla ricerca dell’inizio perfetto: ma a chi importa?

Era-una-notte-buia-e-tempestosa...-così-Snoopy-cerca-sempre-di-iniziare-il-suo-mai-finito-romanzo.-In-mostra-la-copia-del-vero-romanzo-con-questo-incipit.

La prima frase di un’opera letteraria si dice sia importante: è come una promessa, una stretta di mano, un abbraccio, una chiave. C’è chi ha scritto libri sui libri e poi chi ha scritto libri sulle prime frasi dei libri. Esistono corsi universitari, giochi da tavolo, basati sulle prime frasi dei libri, ma soprattutto esistono libri che parlano di regole per scrivere le prime frasi dei libri. La prima frase di un’opera letteraria si dice che è come un biglietto da visita, se va bene potrebbe andare bene anche tutto il resto, se va male va male tutto, per certo. E’ quella frase che non costa fatica, che arriva subito e che a volte si sfrutta per fingere di averla letta tutta quell’opera. E’ quella frase che si dimentica subito. E’ quella frase che gli editori analizzano per decidere se l’ultimo dei millemila mediocri autoruncoli esordienti possa vedersi spalancata la porta della pubblicazione oppure la cartella “cestinato”.

Electric Literature nell’articolo di Andrew Heisel ricostruisce la storia della prima frase dei libri con l’idea che questa sia il risultato delle grandi trasformazioni storiche e sociali degli ultimi tre secoli. La prima frase dei libri in effetti, oggi tanto apprezzata nelle innumerevoli liste online di citazioni rapide e indolori, oggi tanto osannata dalla critica, non è sempre stata oggetto di visibile interesse. Nel Settecento a nessuno importava di cominciare “bene”, che poi “bene” secondo i criteri comunemente condivisi, ma la lettura del mondo moderno, si sa, è esperienza prima di tutto privata. Si cominciava con la dedica, la prefazione con dichiarazione di intenti, una spiegazione di quello che si stava per leggere, per accompagnare il lettore mano nella mano. Poi si attaccava con un inizio che fornisse tutte le informazioni di base per accedere alla vicenda, una mappa. Il Robinson Crusoe di Defoe comincia così: “Sono nato nel 1632, nella città di York, da una buona famiglia, anche se non del Paese, essendo mio padre uno straniero del Bremen, che si stabilì per la prima volta a Hull“. Un attacco semplice, convenzionale e più volte deriso nel corso della letteratura successiva. “Era una notte buia e tempestosa” è la prima frase del Paul Clifford di Bulwer-Lytton, prima che di Snoopy. Un inizio descrittivo, che crea l’atmosfera in cui il lettore si deve immergere, niente di più.

Secondo Heisel questo periodo tranquillo privo di ansie da incipit si è modificato con i progressi avvenuti nel mondo della comunicazione, e dunque della scrittura. La velocizzazione dei tempi della vita, l’avvento della pubblicità e del giornalismo sono indicati come i fattori di svolta. Per far fronte a queste novità sono state divulgate delle regole. “You must take a point of the biginning in the middle of the story: as nothing is more absurd and inspid than letting a person know who, or what, they are reading about, for four chapters at least.” Comincia subito con la vicenda, evita di annoiare per capitoli interi il tuo lettore che tanto già sa o immagina di cosa o chi stai parlando e soprattutto se possibile metti lì una frase che dica orrore, o meraviglia, o apprensione dei sentimenti. Questo raccomandava nel 1808 un mensile londinese. Niente di più vicino a quello che si raccomanda del resto a un buon giornalista: affondare ogni retorica, a vantaggio della fiction.

Ma il peso maggiore lo ha avuto la pubblicità, che già dall’Ottocento si è messa a studiare i metodi più efficaci per il proprio scopo: accalappiare clienti. E allora Dickens, il grande Dickens, che era anche un giornalista guardacaso, fa iniziare così il suo Canto di Natale: “Marley era morto, tanto per cominciare“. Adesso lo scopo è attirare il lettore, fare in modo che si ponga delle domande e che senta il desiderio irrefrenabile di avere risposte, che giri la prima pagina e poi la seconda e così via. Marley è morto? E allora chi parla? Catturato. Lettore in gabbia. Ne Il patto con il fantasma la prima cosa che scrive è: “Everybody said so.” Dicono cosa? Chi è “everybody”? Del resto lo chiedono gli editori, i recensori, di prestare attenzione alla prima frase. Nel Novecento tutto ciò è pratica consolidata. Le opere letterarie iniziano nel vivo della vicenda, il lettore lo buttano dentro senza più appigli, se li troverà per strada, l’importante è che continui a leggere. La prima missione dello scrittore, dell’editore, è tenere incollato il lettore alle pagine, fare in modo che la sua attenzione non si abbassi troppo, che il libro venga letto, perché il mercato si è ampliato notevolmente, la concorrenza è tanta, le richieste del pubblico in fatto di gusti e dettagli altrettante. Come nella pubblicità la cosa essenziale è metterci il minor tempo possibile per attirare il cliente-lettore con la maggior efficacia possibile: “More modern openings show an increased interest in the art of the shop-window”, nota nel 1935 l’Observer. La prima frase di un’opera letteraria è come una vetrina.

E così nella lista più recente dei 200 romanzi da leggere pubblicata dal Times, solo otto cominciano con una descrizione e nessuno di questi appartiene ad una penna debuttante. Nonostante ci sia una grande varietà di incipit, oggi è notevolmente predominante quindi la scelta di un attacco secco, folgorante. In base alle ricerche di Heisel è considerato buono un inizio che racchiude in sè tutto il senso della storia, quello che lascia al lettore una sorta di promessa, quello in cui i tempi della storia -passato, presente e futuro- si sommano e si attorcigliano, a garantire poi un dispiegamento nel corso delle pagine successive. Gli esempi più calzanti sono quelli di un grande della letteratura in lingua spagnola: Gabriel Garcìa Màrquez. “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio“, “Era inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati“, “Il giorno in cui l’avrebbero ucciso, Santiago Nazar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo“: rispettivamente da Cent’anni di solitudine, L’amore ai tempi del colera e Cronaca di una morte annunciata.

Però, però, molti autori confermano che l’incipit non è la prima cosa che davvero scrivono, ma anzi spesso l’ultima, come una sorta di chiusura del cerchio. E molti lettori, magari anche voi se ci pensate, confermano che in biblioteca o in libreria, preso in mano il volume da soppesare prima dell’acquisto, non leggono dall’inizio ma a caso nel mezzo della storia o addirittura alla fine. L’incipit importa invece parecchio agli editori e ai correttori di bozze, per i quali forse, nel marasma delle cose da selezionare, conta soprattutto capire in modo rapido e indolore sin dalle prime righe se una storia attira oppure no. Nell’ultimo Festival della Poesia organizzato a Milano lo scorso 14 maggio, una referente della casa editrice La Vita Felice alla domanda su che cosa è necessario perchè un autore esordiente di poesia venga pubblicato ha risposto, esclusivamente, con dei consigli pratici: inviare un file di prova che sia scritto almeno a carattere 16, con un format che ispiri serietà, un titolo breve e interessante, una impaginazione che non infastidisca la vista e un inizio che sia la migliore delle cose scritte, perchè non sempre sennò chi seleziona va avanti a leggere.

Nel creare tuttavia una frase che funzioni bene a prescindere dal resto, c’è il rischio che il resto venga messo da parte. E’ vero, l’incipit funziona come un’esca per il pesce, ma ha senso che l’esca venga consegnata prima di iniziare? Non sarebbe forse più divertente che il lettore la trovasse, trovasse la sua, a sue spese nel corso della lettura? Se si fermasse a rimirare soltanto la prima frase sarebbe davvero troppo pigro, e chi legge di solito non lo è mai, se non perchè costretto. Si celebra la prima frase di un’opera letteraria perchè la si considera tassello fondamentale per tutto il resto, ma la quantità, oggi, di incipit “orfani” di questo famigerato resto sembra suggerire l’opposto. Forse non è nemmeno interessante che un’opera letteraria metta avanti subito la sua faccia migliore, ma piuttosto che la lasci scoprire poco alla volta, che ne semini più di una qua e là perchè i lettori scelgano la propria. E’ vero, una prima frase ben costruita può anticipare l’intera storia, confondere, tentare il lettore, ma se non ammette un fine più vasto può persino danneggiare l’intera opera a cui dà inzio. C’è il pericolo che gli incipit di una storia risultino meno interessanti per la storia stessa e per i suoi lettori di quanto lo siano per tutta l’operazione commerciale intorno a cui ruotano. C’è il pericolo che una bella prima frase risulti niente altro che una bella prima frase.

[informazioni tratte dall’articolo in inglese di Andrew Heisel per EletricLiterature]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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