Vien normale, ad un certo punto della vita di un lettore, che ci si chieda un po’ il motivo per cui lo si fa. Non vale solo per i lettori e il leggere, certamente. Vale per tutte le persone che fanno gesti che si ripetono nel tempo. Capita a chi viaggia molto, per esempio, e tendenzialmente capita che la geografia di questa domanda esca fuori insieme agli altri compagni di viaggio e che poi si cerchi di rispondere insieme.
Accade, insomma, a tutti quelli che si sono appassionati a qualcosa che comporti il muoversi in un certo modo, con una certa tecnica, una certa gestualità, una certa ripetizione.
La teoria della letteratura è la disciplina che cerca di dare un po’ di risposte, ma come tutte le discipline che appartengono al leviatano universitario finisce per perdersi in un po’ di formalismi e accademismi, e di risposte, alla fine, non ne da poi troppe.
Io sono inciampato spesso in questa domanda, perchè leggere è un gesto che amo fare e la letteratura è un mondo in cui mi piace entrare. La pulizia del gesto dello scrivere, poi, è la fodera di una bellezza ulteriore ancora più profonda.
Ho trovato una risposta interessante studiando il modo che aveva di muoversi dentro la stanza di questa domanda il miglior scrittore che sia mai passato su questo pianeta, un tale francese, che si chiamava Marcel Proust. Non è il tizio che ha scritto la storia più bella della letteratura, tutt’altro. Ha scritto una storia noiosa per niente avvincente, lunghissima, per ampie parti vezzeggiativa e sterile, che ha pubblicato in sette volumi con il nome di Alla ricerca del tempo perduto. Ultimo volume 1927.
Proust non era un grande narratore ma era di gran lunga il migliore esecutore dello scrivere. Era il migliore a gestire le parole, a sceglierle, a utilizzarle. Cioè era pazzesco, in un modo in cui poi non lo è stato più nessun altro, nell’utilizzo di uno strumento che appartiene a tutti noi (cioè la scrittura).
Cercando di capire perchè Proust sia stato il migliore scrittore di sempre, sono inciampato anche su un qualcosa di collaterale ma denso di risposte possibili ad una domanda che avevo e che non c’entrava proprio con Proust ma che comprendeva anche lui. E la domanda è quella di prima. Ma noi, perchè leggiamo? Perchè ci affidiamo alla letteratura in modo così abbandonato?
Proust era uno scrittore prolisso e alluvionale. Ci metteva paginate per dire cose che Hemingway avrebbe detto in una frase. Ma si sa che nella pragmatica dello stile Hemingway e Proust sono i due poli, tutti gli altri abitano la linea che collega loro due.
Proust, e lo si legge dentro la Recherche qua e là nell’oceano di pagine, aveva una convinzione profonda e immobile: quello che fa la scrittura, e quindi il suo prodotto ultimo, cioè la letteratura, è prendere parti del vissuto esperienziale e cominciare a sezionarle e dividerle usando il bisturi del lessico e le procedure della grammatica. Dove tutti si fermavano Proust andava avanti, per questo non finì mai di scrivere, ma lo fece perchè per lui era essenziale arrivare al non più divisibile, all’atomo dell’esperienza. E quello era necessario scriverlo bene, con il numero di parole necessarie per completarlo. Tre righe o trecento poco importa. Lì, individuare il cuore del mondo.
In Proust abbiamo questa idea legata all’arte in generale, non solo alla letteratura. Anche un quadro o un film fanno quel genere di lavoro; ma lui usava lo strumento della scrittura e le lame del lessico, e la letteratura era quindi il risultato del processo che lui era in grado di maneggiare.
La sua fiducia, e noi con lui, è data dalla sua (nostra) appartenenza ad una specie di animali che – caso unico – dispone dei nomi delle cose. Gli esseri umani hanno nomi per pronunciare le cose, tanto che anche nel libro più centrale della storia occidentale, La Bibbia, tutto comincia con il Verbo. Il verbo crea laddove prima non c’era nulla. Le cose esistono perchè nominate, questa la metafora fondativa.
Lo stupore che crea Proust in chi lo legge (e l’ammirazione venerativa per chiunque provi a scrivere, anche la lista della spesa) è l’intuizione di questo procedimento comune a tutti, unito all’utilizzo della tecnica più cristallina per farlo. Proust è lo scrittore che ha portato sulla vetta più alta l’idea che scrivere significhi saper pronunciare nomi in sequenze, il cui risultato è il contenuto di un nostro pezzo d’esperienza. Dietro c’è un progetto di una coerenza granitica: il pensiero che noi, con il solo ausilio della scrittura (esibita con una capacità tecnica mostruosa, nel suo caso) e attraverso quel processo di dissezione della nostra esperienza, siamo in grado di stringere il cuore del mondo. Cuore del mondo che se vogliamo usare una espressione forte possiamo definire come la verità di quello che ci accade.
Va detto che ogni volta che si taglia le cose si disfano. Quando si comincia a tagliare la realtà, essa tende a disfarsi e qui sta, di nuovo, l’uso incredibile della capacità tecnica. Scrivere è l’arte di tenere insieme il mondo dopo che lo si è fatto a pezzi. È tenere insieme l’orologio smontato ma ancora funzionante; e molta della bellezza che noi troviamo nella letteratura nasce dal fatto che noi facciamo esperienza di una cosa di cui è molto difficile fare esperienza nella vita quotidiana: aprire come un melograno la vita, il mondo, l’esperienza o un suo angolo, e quello che accade mentre sbrodola tutta, cola, si spacca, cade per terra, è il suo diventare un nome, tutto tenuto insieme dalla meraviglia una frase epigrafica. Nominare una certa nostalgia (Selby Jr) o il mondo di portare a casa le cose (McCarthy) o una storia d’amore o quello che ci attraversa delle città in cui viaggiamo (Calvino). (Si potrebbe andare avanti all’infinito o quasi).
Leggendo ( o scrivendo) quello che ci accade di fare è ricomporre il mondo che ci è dato disfato e in pezzi ma tenuto insieme con l’architettura di strutture sintattiche che noi siamo in grado di abitare, quindi di capire. Attraverso quelle parole ci accade di riconoscere un pezzo della nostra esperienza, e finalmente darle un nome. Più leggiamo più abbiamo le parole e le forme precise per dire quello che ci accade. Aumenta il grado di esattezza. Ci spostiamo sempre più verso il centro del bersaglio.
Quello che fanno i grandi scrittori – qui la ragione del loro successo – è riuscire a scrivere pezzi di esperienze loro nelle quali i lettori possano riconoscersi. Non è il motivo ultimo dello scrivere, che vive di ragioni molto più intime e private; ma è sicuramente uno dei motivi cardine del leggere.
È la letteratura, bellezza.
Ciao, abbiamo avviato un blog che parla di letteratura, magari potresti partecipare, col tuo consenso ti invio l’invito. Il blog è: http://www.circolo16.wordpress.com
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