I migliori 15 film del 2015, secondo i due impallinati di cinema di Noveatmosfere.
Whiplash di Damien Chazelle
Premio della Giuria e Premio del pubblico al Sundance 2014, film che va diretto fino agli Oscar dove ne vince tre (montaggio, sonoro, attore non protagonista). Al Sundance 2013 Damien Chazelle fece un corto (pressapoco la scena centrale del film): grande successo e raccolta fondi per farne un film completo. Cambia il protagonista ma rimane l’attore del corto che più aveva impressionato, quel J.K. Simmons che poi vincerà la statuetta dorata dopo vent’anni di carriera e una valanga di ruoli interpretati, dando corpo al direttore d’orchestra che sa di una costante citazione all’Hartman di Kubrick (Full Metal Jacket). Film jazz sul jazz, ma mai improvvisato. Il ritmo è meraviglioso quasi fosse un thriller (oscar al montaggio vinto per distacco); si parla di sogni e di sacrificare tanto (tutto?) per il traguardo il fondo alla corsa. Cadute e sudore, cicatrici e cerotti del cinema indipendente che continua a dimostrare di essere il milieu delle idee del cinema USA (sia a livello narrativo che a livello tecnico). (s.m)
The Lobster di Yorgs Lanthimos
Lanthimos mette in scena l’amore. Nella distopia di The Lobster l’amore è atto dovuto o rifiuto totale. La scelta dell’assoluto mette in luce ogni sfumatura, sfrutta a pieno ogni emozione per ricreare un quadro delle relazioni tra gli esseri umani. Ne viene fuori un dipinto estreamemnte realistico, in cui anche la magia, quando compare, si esprime nei freddi strumenti del chirurgo che trasforma in animale chi si rifiuta di amare. Dallo scontro tra un estremo e l’altro nasce un sentimento di ribellione, ma l’amore può non essere assoluto? (v.s.)
Timbuktu di Abderrahmane Sissako
Ne avevamo parlato diffusamente qui, quando il film uscì. Film sulla resistenza e sulla libertà, sulla jihad e su la magia di un luogo invisibile calviniano, quella Timbuktu oggi parte di una delle mille milizie affiliate allo Stato Islamico che Stato Islamico non sono. War-lord locali che impongono, questo sì, la stessa apatia culturale e morale del califfato. Per i teorici dello scontro di civiltà: il film sul significato dell’Isis, ad oggi, lo ha fatto un regista mauritano cresciuto in Mali. (s.m)
Ant-Man di Peyton Reed
Il più piccolo degli Vendicatori della Marvel è anche quello che dà maggiori soddisfazioni. Il confronto con Age of Ultron è impietoso, e c’era da aspettarselo sin da quando la Marvel aveva affidato il progetto ad uno dei registi più eclettici della scena, Edgar Wright. Il camaleontismo del britannico, capace di saltare da un genere all’altro di film in film, però non è tale da lasciar da parte la sua indipendenza, così il giocattolo è finito nelle mani di Peyton Reed, il quale ha ammesso più volte il debito verso il suo predecessore.
Il merito migliore di Ant-Man è il successo nella sua sfida più grande. Il contrasto tra grande e piccolo, il passare dall’uno all’altro senza perdere la credibilità davanti allo spettatore. E come un piccolo ladro e la sua banda di piccoli furfanti specializzati, possono diventare un grande super-eroe (però solo quando è piccolo!) e la sua squadra di grandi spalle, così Reed può realizzare un ottimo heist movie a partire da un personaggio dalla matrice così poco alta, anzi: bassissima. (v.s.)
Hungry Hearts di Saverio Costanzo
Savierio Costanzo (La solitudine dei numeri primi, In Treatment) riduce il romanzo di Marco Franzoso. Lui è Adam Driver (il Kylo Ren di Star Wars); lei è Alba Rohrwacher. Film duetto, e due lo fanno benissimo. Tanto bene da vincere, entrambi, la Coppa volpi alla migliore interpretazione a Venezia 2014. I due si conoscono a New York, nel bagno di un ristorante cinese. Si innamorano e dentro un minuscolo appartamento di Manhattan si ritrovano, nove mesi dopo, a dover crescere un bambino. Escalation di follia della nutrizione (per lei tutto il cibo è inquinato, dittatura del biologico a tutti i costi) e di lotta intestina ai due genitori, incapaci di conoscersi ancora. Mondo (in evoluzione) di intolleranze alimentali presunte e etica della purezza alimentare (no-global del cibo 2.0), il tutto è una messa alla prova di una storia d’amore che prima funzionava. Quanto si conosce la persona che abbiamo scelto? La zona cieca delle persone è un campo minato. Del genere: pazzi si diventa. (s.m)
Kingsman di Matthew Vaughn
Ci risiamo, Matthew Vaughn e i fumetti. Ormai Vaughn è uno specialista. Dopo al tragicomico vigilante Kick-Ass e ai giovani X-Men, tocca agli agenti segreti del Kingsman.
Nel più classico dei film di formazione un giovane apprendista deve diventare un agente segreto in armi tecnologiche e vecchi trucchi da gentiluomo. Tutto bene.
Il film riesce ancora meglio in quella che è il suo scopo sottotraccia, e cioè quello di sfruttare l’intrattenimento(impossibile non citare il combattimento in chiesa girato in long take) per criticare il presente ed in particolare il mondo del 2.0.
La necessità di comunicare, e di farlo il più velocemente possibile a prezzi vantaggiosi porta all’uniformazione, alla perdita di sè e del proprio senso critico. E a causa delle ultime due ad un’uniformazione peggiore, che trascende la moda e guadagna il terreno del vissuto.
L’emergenza climatica diventa il sottofondo dell’ennesima minaccia di una piccola maggioranza che, possedendo la ricchezza e gli strumenti per crearla, decide quale debba essere il destino dell’essere umano, coinvolgendo anche chi dovrebbe mantenere l’ordine e l’equilibrio. Proprio la rottura dei clichè e della tradizione riporta alla dimensione individuale, e quindi alla salvezza del mondo.
Quando ci si diverte e allo stesso si pensa si va ben oltre il blockbuster. (v.s.)
The Tribe di Myroslav Slaboshpytskkiy
Tanti premi per un film passato al di là dei radar dei circuiti di distribuzione. Milano Film Festival (2014) e premio come miglior rivelazione agli European Film Awards (sempre 2014; nel 2015 il premio è andato a Mustang, un altro film in questa classifica). Non distrubito nemmeno dal circuito Spaziocinema ma solo dalle cineteche. Film d’avanguardia con l’audio ridotto al montaggio sonoro e basta. Non ci sono dialoghi perchè il film è dentro un orfanotrofio ucraino di muti che parlano linguaggio dei segni. Crudo e violento come pochi (anche nel trattare l’amore), estetica realista di una storia in cui l’ultimo arrivato (lo straniero tra stranieri) scardina la geometria della tribù. Eroe marxiano che pone fine alla storia: c’era un prima ma non ci sarà un dopo, anti-eroe che spezza il processo in divenire. Cinema d’arte e politica. (s.m)
Alaska di Claudio Cupellini
In Italia si possono fare film di respiro almeno europeo, uscendo dalla dimensione dell’autorialità da cui il cinema italiano sembra imprigionato da anni.
Cupellini fa quello che i registi italiani si rifiutano di fare, sfruttare il talento degli attori italiani, e ci costruisce attorno un film ambizioso che, più che sullo stile, punta sulla sceneggiatura e sul ritmo.
Elio Germano è un grande attore e quando è in scena la ruba a tutti gli altri, ma quando non c’è emergono le qualità del regista che per tutto il film mantiene alta la tensione, e gira almeno una scena, nella morte di uno dei protagonisti, che varrebbe il palcoscenico americano.
La solita storia dell’italiano che cerca successo all’estero viene rivista in quella di chi è costretto a tornare e proprio nel suo paese d’origine trova la possibilità di emergere, ovviamente a spese di qualcuno, e nella struttura ad arco del film è struggente che a farne le spese sia chi invece ha fatto il percorso inverso. Al centro di tutto l’amore, soprattutto nelle sue forme meno nobili.
Se c’è un film italiano da vedere quest’anno è Alaska, molto meglio anche di A Bigger Splash di Guadagnino. (v.s)
Mad Max: Fury Road di George Miller
C’è in tutte le top 10, dalle riviste specialistiche di prestigio alle classifiche più pop. Film preferito dell’anno di Tarantino; consenso trasversale per il remake della fortunata trilogia B-movie australiana a badget ridicolo che lanciò Mel Gibson a fine Settanta. Mad Max è un film a trama sospesa costruito su un soggetto da cui viene una sceneggiatura praticamente inesistente. Collage di storie dei pochi personaggi che si annodano in un evento (una fuga). Max prigioniero e fuggitivo da una nuova umanità fantascientifica dal cuore marcio e arido di polvere del deserto che diventa un Max redentore e redento, nel finale sospeso in vista dei sequel. Effetti speciali totalizzanti ma perfetti, peccato la concorrenza di Star Wars per l’oscar. Costumi e trucco sono perfezione di talento. Film pazzo e coraggioso, bello. (s.m)
Pan di Joe Wright
Come nasce il mito di Peter Pan? Il film, che segue Peter da prima che compia i suoi primi passi sino alla nascita della sua leggenda, è un insuccesso al botteghino. Wright, al suo primo film ad altissimo budget, incassa meno di quanto spende e non si capisce il perché.
Pan è bello da vedere, alterna continuamente azione e sentimento, ed è ben messo in scena. Son tantissime le scene da citare: dal rapimento degli orfani dal tetto dell’orfanotrofio alla battaglia tra la nave dei pirati di Barbanera e la Royal Air Force, dall’entrata in scena di Hugh Jackman sulle note dei Nirvana cantate da un’intera cava di minatori ai ricordi di un passato di lotta che scaturiscono dalla corteccia di un albero. Poi ci sarebbe il ribaltamento del ruolo di Uncino, il suo lato debole e il suo specchiarsi in Barbanera. Forse Rooney Mara e Garret Hedlund non sono in grand forma, ma Pan val bene un attore cane.
Mia madre di Nanni Moretti
Per i Cahiers du Cinema, rivista che fu il trampolino di Truffaut, è il film del 2015. In concorso a Cannes fu un grande successo, ma la giuria (probabilmente la più importante di sempre, per nomea dei giurati) presieduta dai fratelli Coen gli hanno preferito Dephaan. Sincero e profondo, sono gli aggettivi che più si ripetono nella critica di questo Moretti. Si dice: intimista, ed è certo vero. Non è il moretti anni Settanta, un po’ cazzaro e un po’ filosofo di vita urban. Non vuole più far ridere (se non a sprazzi, tutto incentrato sul personaggio di John Turturro) e non vuole più la critica sociale. Costruito bene, con una grande lezione di cinema per chi del cinema è sempre stato amante prima che addetto ai lavori, tanto che la protagonista, una Margherita Buy (nastro d’argento e David) di mestiere regista, è protagonista in un fragile lato umano. Piaccia o meno, Moretti è storia del cinema italiano. (s.m)
Mustang di Deniz Gamze Ergüven
Il film francese selezionato per l’Oscar al miglior film straniero è uno dei migliori film dell’anno.
Ambientato in Turchia, mostra il contrasto tra religione e mondo contemporaneo. Le vita di cinque ragazze innocentemente al passo coi loro tempi si scontra col muro di mitologia religiosa di una famiglia e comunità ostinatamente osservante.
La luce, le forme e i colori lasciano presto il passo al buio, all’uniforme e all’opaco. Rimane solo la bellezza, anche questa ingabbiata perché considerata un disvalore dall’ossessione per i costumi. No, la bellezza non salverà il mondo, ma lo condannerà. E la redenzione sarà possibile tramite il rifuto del mondo. Solo nel finale tutto questo, per fortuna, si capovolge ed è proprio lo strumento di oppressione, la casa matriarcale, a diventare possibilità di liberazione.
Si alternano sorrisi e pianti, i primi molto spesso solo dello spettatore perché la vicenda è dura, durissima. (v.s)
Quel fantastico peggior anno della mia vita di Alfonso Gomez-Rejon
Vincitore del premio della giuria e pubblico al Sundance 2015, a ereditare il testimone un anno dopo Whiplash. (Nella tardiva distribuzione italiana compaiono nello stesso anno.) Aborto del titolo (peculiarità tutta italiota) che trasforma un titolo appositamente semplice (Me, Earl and the dying girl) in un titolo da teen-movie scolastico. Film cinefilo emblema di quanto il cinema indie americano sia entrato in sfida con le major: storia simile a quel Colpa delle stelle che spezzò i condotti lacrimali di mezzo mondo e incassò tantissimo; anche qui c’è una malattia giovanile ma a differenza della trasposizione di John Green qua è trattata senza compassione. Non c’è storia d’amore ma solo una terrificante programmatica amicizia. (“Se questo fosse un film d’amore adesso ci guarderemmo con bramosia e ci baceremmo con l’ardore di 12 soli infuocati. Ma questa non è una romantica storia d’amore”) Cos’è allora? Un colpa delle stelle pulito dal melodramma posticcio e un po’ kitsh del pianto per costruzione emotiva, girato negli stilemi puri della regia indie più estetica che c’è (alla Wes Anderson). Le emozioni possono anche non essere vendute un tanto al chilo, per fortuna. (s.m)
The Martian di Ridley Scott
Nel 2015, a meno di puntare sullo sci-fi puro e duro, ci sono due strade per girare un film sullo spazio. La prima è quello di puntare sulla classicità, e quindi prendere a pieni mani da Kubrick, da 2001: Odissea nello spazio, come ha fatto con discreti risultati Nolan con Interstellar; l’altro, forse meno impegnativo ma più interessante, è lasciarsi alle spalle tutto e scarificare il silenzio e il buio dello spazio infinito per puntare su colori e musica decisamente terrestri, in questo caso un archètipo può essere il sorprendente I guardiani della Galassia.
Ridley Scott sceglie la seconda via e, ricalcando il blockbuster Marvel & Disney, mette l’intrattenimento davanti a tutto. Ancora una volta la lontananza nello spazio, e quindi nel tempo, è resa tramite una colonna sonoro anni ’80 che spezza il silenzio senza atmosfera dello spazio. A differenza del film di Gunn però, dietro al divertimento, c’è una solida base di nozioni scientifiche e calcoli matematici che ancorano ad un terreno solido di realtà la pellicola, e su questa base si sviluppano le emozioni umane e nasce l’impianto per un film in grado di scontrarsi anche su un piano più alto. Scott 1, Nolan 0. (v.s)
Star Wars: Il risveglio della Forza di J.J. Abrams
Il settimo episodio della saga di Star Wars è un ritorno alle origini. Uscendo dalla sala la prima sensazione è quella di essersi messi alle spalle Episodio I, II e III, che pur essendo godibili – III sicuramente, gli altri possono limitarsi a piacere – avevano poco a che fare con la precedente trilogia. A partire dagli effetti grafici e dalla fotografia, per non parlare dei continui riferimenti al passato di una sceneggiatura forte di un soggetto legato alla fine della prima trilogia, scritto da Lawrence Kasdan (autore dell’episodio V e VI) e da Michel Arndt, scrittore che come J.J.Abrams viene dal circuito off-major (Oscar per Little Miss Sunshine). J.J. Abrams, newyorkese cinefilo, riempie il film di citazioni alla trilogia di Luke Skywalker (tantissime scene girante in interno sono riprese dalla prima trilogia: stessi movimenti di carrello, stessi quadri) e citazioni al grande cinema (da Max Von Swydow dell’inizio film, attore di Bergman che quasi sembra in veste Settimo sigillo, alle astronavi in sfondo arancio del sole al tramonto della celebre sequenza di apertura di Apocalypse Now).
L’aspetto più interessante del film sono i due protagonisti, Rey e Kylo Ren. Entrambi sono una novità nell’universo creato da Lucas. La prima non poteva esistere nelle trilogie precedenti, Rey è prima di tutto una fan di Star Wars: il suo viso si illumina quando sente parlare di Luke Skywalker e Han Solo, e il suo cuore si scioglie quando vede la principessa Leia. Il suo entusiamo è lo stesso di chi guarda, e l’immedesimazione è il primo passo verso il funzionamento di una pellicola. C’è poi il collocarsi all’interno dell’interessante ondata del cinema hollywodiano in critica femminista, non più come ideologia ma proprio come mondo della vita. L’eroe si è fatto donna (Divergent, Hunger Games) e questo Star Wars alla ricerca di un nuovo jedi scopre che il femminismo non è solo una moda ma è una necessità anche per le galassie difese dalle spade laser.
L’altro lato della medaglia è Kylo, lui non è Darth Vader e proprio per questo molti hanno storto il naso. Ma questa è una scelta precisa, sin dal non accompagnare il suo personaggio alla marcia imperiale. La sua debolezza, il suo aver interrotto l’addestramento sia al Lato Chiaro sia al Lato Oscuro, rende credibile tutto quello che succede, lasciando in sospeso il giudizio su di lui e donando credibilità ai personaggi di Rey e Finn.
Con gli occhi del mondo puntati addosso e una pressione da fossa delle Marianne questo Star Wars è l’evento cinematografico del 2015. (v.s;s.m)