Mi è capitato di vedere l’ultimo film di Jean Marc Vallèè, il regista di Dallas Buyers Club. Il film si chiama Wild ed esce oggi in Italia. La protagonista è Reese Whiterspoon, una attrice brava che ha sempre fatto commedie e che con l’unico film davvero di livello che ha interpretato, il biopic con Joaquin Phoenix su Johnny Cash, ha vinto l’Oscar.
Il film, in sè, non è particolarmente memorabile. Ma ci sono delle cose interessanti.
Wild racconta la storia di una ragazza di venti-e-qualcosa anni che cammina lungo la PCT (Pacific Coast Trail), un percorso di trekking che va dalla California al Canada, lungo la costa pacifica statunitense. Per quello che voglio dire non è importante la storia, quindi se vi interessa il perchè lo fa andate al cinema, che comunque vi guardate un bel film. Quel che mi sembra più importante è il fatto che nel film ci sono alcuni elementi sul mondo del viaggio che sono descritti molto bene. Io ne ho riconosciuti in maniera distinta quattro, probabilmente ce ne sono molti di più.
Primo. Nel film, la protagonista non è una esperta. È sua alla prima vera sfida, tanto che ha le scarpe troppo piccole e lo zaino troppo grosso. E già qua ci sono almeno due cose importanti. La prima è il fatto che c’è sempre un inizio del viaggio, si può cominciare dalle cose piccole o da cose impegnative, ma c’è un primo viaggio, un grado zero dell’iniziazione. E in quel caso non ci sono regole da rispettare o esperienze che diano delle coordinate. La maggior parte del tempo si improvvisa e si va di conseguenza. Improvvisando si finisce a portare cose nello zaino che non sono necessarie, che pesano e che rallentano. Oggetti inutili, che non si useranno mai ma che paiono indispensabili. E in questo c’è un’altra bella cosa del viaggiatore che questo film racconta. Il rapporto con lo zaino, unico vero compagno di viaggio. Nello zaino c’è tutto quel che serve, tutto sulle tue spalle, come se nella vita di tutti i giorni fossimo circondati da oggetti che alla fine sono tutti superflui, inutili e vacui. Armadi e cassetti pieni di cose, contro uno zaino, un solo piccolo zaino da poter riempire del necessario. Va da sè allora che il primo zaino, quello del primo viaggio, sarà pesante e pieno oltremodo. Ma lungo la strada qualcosa si perde, si lascia tutto ciò che non è servito, non serve e non servirà, si impara a viaggiare leggeri, e in questo – che prende la piega di un processo – si impara il sacrificio, si impara a fare a meno, si impara a valutare in necessario dal superfluo, dall’accessorio.
Una seconda cosa è la difficoltà del continuare dopo il primo ostacolo. Per una buona parte iniziale del film viene ripetuto moltissimo il verbo “to quit”. Mollare, uscire dal gioco, rinunciare. Lei lo dice a tutti quelli che incontra, se lo sogna la notte. In fondo non c’è nessuno che obbliga a portare a termine il viaggio, tutta quella fatica, tutto quella polvere, quella stanchezza. Perchè andare avanti quando tutto, prima tutto il tuo corpo, è un grido d’allarme? Nonostante tutto lei va avanti. Fa poche miglia al giorno. Undici, dodici. Incontra un ragazzo che ne fa ventidue. Il doppio. Le sensazioni sono quelle lì, in fila una dietro l’altra. L’inadeguatezza, il senso di essere al posto sbagliato, il non riuscire a farlo, eccetera. Finisce però che quello lì che faceva venti miglia, una volta incontrata troppa neve, decide di tornare a casa, lei invece no. Lei che era inadeguata al viaggio, novizia e inesperta, prosegue. Ed è una bellissima lezione.
Terza cosa. Questo film inquadra benissimo un aspetto che appartiene, in forme più o meno sfumate, a tutti i grandi viaggi, cioè la solitudine del viaggiatore. È un tratto comune, profondo, determinante, che appartiene tanto a chi viaggia da solo quanto a coloro che viaggiano in gruppo. Ad un certo punto si è soli, si rimugina, si comprende, ci si interroga. La bellezza dell’incontro nasce dallo spazio di questa solitudine, dall’incompletezza del non bastarsi, nè soli, nè nel gruppo. Il viaggio porta con sè l’esperienza dell’altro, o forse, per dirla con un grande scrittore di viaggio come Kapuscinski nella rilettura delle pagine di un grande filosofo francese del Novecento, Emmanuel Lèvinas, un viaggio è forse solo ed esclusivamente esperienza dell’altro, in tante forme differenti e fluide. In questo senso non conta tanto dove andare, conta il verbo: andare. Il percorso. La necessità di partire. (Sta tutto nel titolo di un film pazzesco sul senso del viaggio, fatto da Giorgio Diritti con Jasmine Trinca, Un giorno devi andare).
L’incontro ha anche una componente di paura, di timore. Mettersi nella mani di uno sconosciuto, farsi aiutare senza sapere niente, solo fidandosi ciecamente dell’Altro. La paura là dentro è tutta umana. L’animale ha paura di essere predato, non si affida mai, non ne ha spazio logico. L’uomo invece sì. Si affida, cioè si fida dandosi completamente, facendosi vulnerabile.
La solitudine del viaggio è lo spazio da cui nasce l’incontro, e questo film è forse nient’altro che un collage di questi incontri, come prima lo era stato il film riferimento della categoria cinematografica: Into the wild di Sean Penn.
Quarto ed ultimo elemento è il bel finale. Lei arriva dove deve arrivare, alla fine di questo cammino lunghissimo, e il film finisce con una serie di domande, fatte dalla sua voce fuoricampo. È un finale che ricorda un po’ quel Non Lasciarmi di Romanek, con lei controsole, in una bella fotografia, con la voce fuoricampo. Facendosi delle domande, la protagonista di questo film fa capire un cosa importante: il viaggio non può essere niente di definitivo. Non è un libro delle risposte, non è un tutorial su come trovare se stessi. Il viaggio è solo una zona di passaggio, è un confine che non finisce mai, è solo una ricerca che non ha nemmeno un oggetto. Il finale di questo film è indicativo del fatto che arrivare alla fine non da nessuna risposta, ma solo domande molto più ingombranti delle domande con cui si è partiti.
In Far West non lo si conquista più a colpi di Remington contro gli Indiani. Anzi sembra rimasto solo l’animismo di quei fantasmi che non sono ancestrali del Mondo, ma sono prodotti tutti nostri del lato oscuro di un progresso inarrestabile. Lei, nel film, deve combattere contro di loro, e per sopravviversi viaggia. Si muove. Cammino di redenzione e di identità (sono quello che faccio o faccio quello che sono?) che nel Far West deve realizzarsi per poter liberare i suoi fantasmi.
Ha di forte, questo film, che rimane in testa a chi anche solo una volta ha avuto la strada davanti, la schiena sudata; i vetri dei treni in partenza, le mappe aperte sotto il naso con gli itinerari non rispettati. Quella cosa di mettersi lo zaino e partire. Racconta un pezzetto piccolo di questo mondo e chiunque l’abbia fatto non può che ritrovarsi, magari anche solo per un secondo, ma ritrovarsi.
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Veramente un grande articolo. Non ho ancora visto Wild, per cui non posso esprimermi sul film, ma le riflessioni sul viaggio e sui viaggiatori sono stupende e le condivido in pieno. Scrissi, diversi mesi fa, una recensione su “Into the wild”, che hai citato anche tu. E anche in quella pellicola ciò che davvero assume importanza è valore è il viaggio, la solitudine del viaggiatore e tutti i sentimenti che derivano da essa. Ancora complimenti!
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Grazie davvero.
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Bellissimo articolo! complimenti! Ora devo solo andare a vedere il film 🙂
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Grazie! Complimenti a voi per il sito.
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Post molto interessante, avevo scartato questo film ma ora ho cambiato idea, lo guarderò poi farò le mie valutazioni.
Mi piace come descrivi lo zaino del backpacker, mi rispecchio in questa descrizione, non mi sentirei mai a casa se non avessi il mio zaino con me!
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