Timbuktu: il cinema, la bellezza, la resistenza, la jihad.

Timbuktù. Città lontana tremila chilometri. In quella terra che è Mali, dicono le cartine, ma appena sotto il deserto del Sahara dove le differenze sfumano via insieme alla sabbia che portata dal vento non tiene un confine. Avesse nome di donna sarebbe città invisibile di Calvino, Marco Polo la racconterebbe al Kublai, parlando dello sfarzo che aveva nel 1500, del mistero che porta il suo nome, di quei palazzi che hanno il sole di otto secoli addosso e dell’oro che la faceva un Eldorado irraggiungibile di un continente sconosciuto. Oggi patrimonio dell’umanità, ma non di tutta l’umanità. Battuta dai venti di guerra che sono ciechi alla bellezza e al significato, soffiati da quegli uomini che non guardano all’UNESCO ma a La Mecca.

Nel 2012 una cellula di AlQaeda distrusse quattro templi che appartenevano a tutti. Ci fu una guerra, nel nord del Mali, che fece i titoli e poi i tagli bassi dei giornali, fino a che si smise di raccontarla e quindi sparì, mentre la Francia inviava contingenti per richiamarli un anno dopo. Ma adesso tutto ci tocca, ed ecco che anche il Mali (vicino alla Nigeria di Boko Haram) diventa strategica lotta all’Islam radicale. Perchè intanto Timbukù fu occupata dai muhajeddin che piantarono le loro bandiere nere come novelli Armstrong sulla Luna.

Abderrahmane Sissako, regista africano nato in Mauritania, usa il cinema nella sua vena più impegnata e impegnativa. Racconta e denuncia insieme, usando il simbolo, la città che nella cultura occidentale è confine tra esistenza lontana e poesia (per questo il libro di Calvino); come le Colonne d’Ercole, Scilla e Cariddi che si guardano dallo stretto, Trebisonda o Samarcanda. Timbuktu è solo figura retorica, è memoria di una storia di scoperte e bellezza, usurpata da quell’islam che adesso fa paura anche a noi occidentali; soprattutto a noi occidentali. Per questo Sissako non parla di un occidente contro l’islam. Parla di una libertà contro un’oppressione, nella sua terra.

Timbuktu è occupata dai miliziani jihadisti (accadde nel 2012, sono passati tre anni): vietato giocare a calcio, vietata la musica. Donne e uomini non possono stare insieme nella stessa stanza, le donne si devono coprire persino le mani. È una occupazione. Viene buttata via una tradizione, viene sconfessata una cultura perchè l’islamico Mali è uno stato libero quindi infedele.
Sissako non risparmia allo schermo fustigazioni e lapidazioni degli adulteri, fa vedere tutto. Una donna colta nel peccato contro la legge: stava cantando in compagnia di amici, tra cui degli uomini. Doppia condanna: per il canto e per la compagnia promiscua. Piange il dolore, in ginocchio sotto i colpi, ma dopo dieci sferzate il grido si fa canto. Frusta senza sfumature di piacere (sono cinquanta e di moda quelle di Mr. Grey) e senza il sadismo di Edwin Epps (Fassbender) di 12 anni schiavo. Qua la frusta è emanazione delle volontà del signore, il fustigatore solo un neutro esecutore. E lei canta per non dare la soddisfazione del grido, nemmeno, se non all’uomo, al Dio che la vuole punita.

Sissako non sceglie di raccontare il fondamentalismo come documentario. Sceglie una via molto più poetica, con quella fotografia troppo pulita per la polvere che inquadra. Non vuole denunciare e basta, non è un Michael Moore qualunque. In uno spaccato (un film è sempre e solo uno spaccato) arriva a tsunami l’idea di una bellezza preclusa a chi è musulmano come Sissako – e come gli abitanti di Timbuktu – ma che rispetto a loro si fa portatore dell’intransigenza di una follia che ha bisogno di confini per sopravvivere a se stessa. Come nella più preliminare delle sociologie di Simmel, il confine posto dal fondamentalismo è così rigidamente determinato non per ciò che sta fuori; ma per evitare dispersione all’interno. I deboli chiudono i confini non per paura del barbaro (che fanno nemico), ma per paura che chi è dentro se ne vada, si mischi con i barbari.
Il vietare musica e calcio equivale a vietare il rischio che si ascolti Beethoven, che come sperimentò Lenin fu l’ostacolo più grande alla realizzazione della rivoluzione. La bellezza (come sport, come musica, come cinema, come donne, come amici, come libertà) è ciò che impedisce di disumanizzarsi. Ciò che resiste e fa resistere. In quel mostruoso film che è Le Vite degli Altri (Von Donnesmark, oscar al migliore film straniero 2007) il capitano Weisler della Stasi cede al sentimento di umanità accorgendosi di quanto lui stesso sia ormai automatico e disumano (non cattivo, semplicemente obbediente ad una legge che nel caso di Timbuktu è la sharia islamica ) proprio grazie all’ascolto della “Sonate von Guten Menschen”, la “Sonata degli uomini buoni”, ascoltata tramite le microspie installate nella casa di colui che deve essere controllato, lo scrittore Dreyman.

In questo ideale di bellezza alla Dostoevkij (che ne L’idiota scrive: “la bellezza salverà il mondo”, poi titolo della traduzione italiana di un libro di Todorov) circondato da ciò che oggi pare più barbaro (il jihadismo), Sissako costruisce una storia di finzione ispirata ad una storia di verità. Sulle dune fuori dalla città vive Kidane con sua moglie e sua figlia. Hanno una tenda e sono pastori. Un figlio adottivo custodisce le mucche. Il giorno del tracollo è il giorno in cui capita che una mucca, quella preferita come nel più biblico dei racconti, finisca a rompere le reti di un pescatore del fiume Niger, che per questo la uccide. Kidane, in cerca di una spiegazione, finisce per uccidere fortuitamente il pescatore. La legge islamica non è interpretativa: la vita dell’uccisore dipende dal perdono dei familiari; quasi sempre allora è la morte ad essere inflitta, per la legge del taglione e per un perdono che pur essendo scritto nel Corano non è mai prescrittorio.
Kidane è condannato.

Sissako utilizza strumentalmente (cioè come strumento all’interno del film) la storia di Kidane per portare via la telecamera da Timbuktu, per stare fuori, per creare un controcampo. Lo fa con “tempi sospesi, minimalismo passionale e una implacabile suspense”, come scrive Mariuccia Ciotta, per mostrare che ci sono tanti tipi di musulmani e non solo di quella tipologia chi uccide dei vignettisti a Parigi e che distrugge Timbuktu. C’è un salafitismo sunnita desertico che va dall’Atlantico al Golfo Persico (il wahabismo saudita nasce impregnato della sabbia della penisola arabica e qua vediamo lo stesso fondamentalismo nella sabbia maliana) e c’è il moderato Kidane e la sua famiglia. Loro, così come i ragazzini che non possono giocare, le persone che non possono cantare o il muezzin che viene privato della sua interpretazione del Corano perchè non giustificatrice della violenza, sono i primi a soffrire da musulmani inadeguati, scomodi, precari, vittime. Ad un eurocentrismo totale e incondizionato questo cinema di Sissako manda un messaggio poetico e politico: c’è chi convive con questo, senza differenza dalle nostre occupazioni nazifasciste della metà del secolo scorso. Un piegare la testa docile dato dal volere vivere, perchè si muore se si dice no, che però non passa mai dalla condivisione di quel che è loro imposto. Proprio da lì, si spera, verrà la resistenza. Sissako lo dice in una intervista: “quando mi sono recato là e ho ascoltato i resoconti di coloro che erano stati presi in ostaggio e che hanno lottato talvolta in modo silenzioso, ho tratto ispirazione non solo per rappresentare i divieti imposti dai fondamentalisti di cui già sapevo, nel caso della musica e del calcio, ma soprattutto per mostrare che ci sono state delle forme di resistenza da parte della popolazione, di chi ad esempio ha sfidato i jihadisti cantando. Che lo abbia fatto a voce alta o nella sua mente, la gente ha cantato e per me questa è resistenza. Ciò è una lampante dimostrazione dell’assurdità di tali divieti: non si può impedire alla gente di cantare, né di giocare a calcio e che se mi proibite di farlo, io lo faccio lo stesso e se mi frustate, le mie grida si trasformeranno in canto. Ecco il senso del mio film in termini di resistente”.

Sta in questa logica della bellezza il senso profondo di questo film. I jihadisti ne sono privi, esteticamente ed eticamente. Hanno una cecità alla bellezza. Una incapacità non solo di realizzarla, ma anche di scorgerla, di percepirla, di interiorizzarla. Timbuktu non significa niente per loro, è solo una città su un fiume in un territorio di guerra.
Qui allora torna Calvino (sensibile alla lezione di Albert Camus): vedere la bellezza, riconoscerla. Questo vuol dire resistere, e proprio in nome di questo resistere. Ne “Le città invisibili” Marco Polo finisce le sue molteplici digressioni sulle città dicendo al Kublai qualche parola sull’inferno. La Timbuktu di questo film è inferno. Ma all’interno di esso c’è il seme di una bellezza che è già una resistenza; qualcosa che, come scrive Calvino, non è inferno. È oasi. Ed è una cosa tutta umana, senza dio.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

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