American Sniper e i limiti culturali che (perfortuna) ci difendono

Le guerre americane sono passate dalle telecamere di tutti i grandi registi (americani) degli ultimi trent’anni. Non sono un argomento facile, sono però quasi sempre di facile lettura. Non appena superato lo scoglio della finzione, la guerra riserva gloria imperitura; tutto sta nel cosa mostri, nel cosa lasci intendere e nel cosa taci.

Punti di vista tutti concordi, per quanto differenti, quelli dei vari Spielberg, Mendes, De Palma eccetera che fanno vedere la guerra brutta, ma certo necessaria. Voce atonale di Kathryne Bigelow (che fa anche i film migliori, secondo me) che mostra e tanto lascia intendere; voce scordata e fuori coro di Michael Moore, che addirittura vince la Palma d’Oro a Cannes (2004) con Fahrenheit 9/11; ma in Europa, chiaramente. In America è quasi controspionistico e traditore.

Per chi non l’ha visto, basti sapere che il film è la storia di Chris Kyle, il cecchino più letale della storia militare americana, come lui stesso si è definito nell’autobiografia che fa da soggetto al film, morto assassinato nel 2013.
American Sniper è un film perfettamente il linea con gli altri film di guerra americani e ha sostanzialmente due momenti che si intersecano lungo la durata della pellicola.
Il primo, che è l’aspetto del film più apprezzabile, è la storia drammatica di un soldato. A parte tutte le considerazioni morali (e moraliste) di Eastwood e dei film americani sulla guerra in genere, rimangono le storie sempre modellate su persone in carne ed ossa, da qualunque lato ci si ponga. Luci e ombre di un invasione e di una guerra porta a porta (fosse il Vietnam, la Cambogia, la Corea o l’Iraq) che lascia sul campo vittime ambo i lati. Buoni o cattivi, ognuno porta sull’indice della mano destra solo (si fa per dire) la vita di un uomo, la cui etichetta buono/cattivo dipende unicamente dal lato da cui è puntata la bocca di fuoco del fucile. Non esistono buoni in una guerra, quando il punto di vista è doppio. Ogni lato si considera buono per se stesso (per attaccare o per resistere); ogni lato considera l’altro come cattivo e incarnazione di un qualche tipo di male satanico e religioso, siano i profeti di riferimento Gesù o Maometto. Pericolosamente simile per tutti il trittico “Dio, Patria, Famiglia”, citato da Kyle che vale per entrambi i combattenti, nemici a specchio, americani e taliban, con la differenza che per un cristiano quei colpi andranno giustificati, mentre per i musulmani quei colpi sono il braccialetto all inclusive per la Janna.
A parte tutto questo, la guerra è una tragedia del tutto umana, e il sacrificio di una guerra non ha mai nessun vincitore. Lascia dietro solo morti immobili e morti che camminano convinti di essere sopravvissuti.

Il secondo aspetto è la celebrazione farcita di retorica ed egoriferita di un eroe che è tale perchè uccide cattivi, dall’alto dei tetti, che se portasse anziché la divisa americana, una tuta super-aderente targata Marvel o DC Comics sarebbe il più patriottico dei super-eroi. Tanto che lui stesso, come tutti i militari americani, si sente super-eroe e giustiziere. Stemma del Punitore ovunque (quel teschio con la mascella allungata) su divise e carri armati, quel anti-eroe Marvel che uccide senza legge, ma solo i cattivi. È la stessa moglie di Chris Kyle che gli dice: “Ho bisogno che tu torni ad essere umano”, prima che lui parta per il quarto turno in missione. Perchè la guerra disumanizza, e lui, indice al grilletto, di umano ha ben poco. Macchina da guerra che puzza di quella sentenza che diede un donna a Gino Strada, scritta dal fondatore di Emergency nel libro Pappagalli Verdi. Un bambino cammina per una strada a Sarajevo, nel mezzo della guerra. La strada è soprannominata Sniper’Road. Un colpo che gli frantuma la faccia. Gino Strada incontra quel cecchino, una donna. La prima domanda è: perchè? Lei dice: aveva sei anni, tra venti ne avrebbe avuti ventisei. L’intervista finisce, non ci sono altre domande da poter fare.
La storia di un cecchino è la storia degli aspetti più subdoli della guerra, ma Hollywood riesce a far diventare questo e una guerra intera, la lotta olimpica tra due cecchini nemici, e tutto si riduce a Mustafa vs Kyle che uccide il suo rivale nel tiro della vita, da due chilometri.

Evitato il polpettone propagandistico per merito di ritmi forsennati e tecnica fine, il film rimane un tutto ideologico, senza tanto altro dentro. Qui nasce il problema per noi stranieri.
L’Italia in quella guerra ci è andata come supporto per obblighi NATO, ma abbiamo dei limiti culturali che ci impediscono di vedere questo film con lo stesso sentimento con cui viene visto dagli americani. Noi non ci siamo mai sentiti l’ultimo baluardo contro la distruzione della civiltà, e gli americani, dalla Prima guerra mondiale, l’hanno sempre fatto. WWI e WWII, poi le guerre al comunismo in Corea e Vietnam, poi il Golfo e l’intervento in Jugoslavia; poi l’Iraq e l’Afghanistan e adesso il califfato. Tutto dipende da loro. L’Occidente come weltanschauung, come modo di essere nel mondo dipende da loro. Un film che parla di questo non potremmo mai capirlo a dovere. Forse è per un certo provincialismo; ma a me piace credere, invece, che abbiamo un cultura più critica e meno ideologica, e certo più umile, dei tre quarti degli stati americani, dove un feretro contenente la storia della contraddittorietà americana (lui ucciso da un altro reduce) può passare su una strada chiusa con ali di folla intorno sventolante bandierine nazionali. Perfortuna.

SrM

 

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