Aria iniziale
Alle complicate olimpiadi del 1968 un tizio americano un po’ allampanato che faceva di nome Dick Fosbury saltò per la prima volta di schiena nella gara del salto in alto. Niente record, ma vinse l’oro. Tutti erano capaci a saltare in alto. Lo facevano ventrale, buttandosi sopra l’asta di pancia e girandoci intorno. In quel modo – senza vedere l’ostacolo – non l’aveva mai fatto nessuno.
C’è una componente all’interno del senso che si dà alla parola “genio” che è vagamente antipatica per tutti quelli che geni non sono, e implica questo: ad un certo punto tutta una collettività capisce che c’è una persona capace di fare cose che tutti gli altri si sognano. Non è tanto il fatto che solo lui sia capace, è più l’inclinazione di quella persona a fare quella cosa in un modo che non la si è mai vista fare prima.
Fosbury non è certo l’icona del genio, nell’immaginario. Per la maggior parte delle persone è ancora un illustre sconosciuto. Eppure lo è stato un genio. Mi immagino l’atleta che saltava dopo di lui, alle batterie. Fosbury che salta e lui, lì, si è visto in faccia il futuro, in un gesto, davanti agli occhi, come fosse scritto. Destabilizzante. Perchè ci si deve difendere in qualche modo dal fatto che nessuno è capace a fare una cosa a quel livello – qualunque cosa si tratti– e il genio sì. A questo punto le strade che può prendere la collettività sono due: una va per l’esclusione, una sorta di violenza metafisica. L’altra invece crea un piano differente e sposta il genio di categoria. Lo toglie dallo spazio di possibilità che investe tutta collettività. Libera tutti dalla responsabilità di competere con lui. Ci saranno persone brave, persone molto brave e persone incapaci. Il genio invece starà da un’altra parte. Fuoriclasse. Continua a leggere “Bach, il genio e i soccombenti. Glenn Gould, una storia”
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