Avevo scritto qui la storia di Agota Kristof, raccontando della sua vita e di come si era ritrovata, a più di cinquant’anni, ad essere una scrittrice planetaria scrivendo praticamente un solo libro, che risponde al nome Trilogia della città di K., edito in Italia da Einaudi dall’edizione originale francese pubblicato da una delle più prestigiose case editrici parigine: Seuil.
Come ho anticipato nell’altro pezzo, i libri pubblicati (ma anche scritti) di Agota Kristof sono un numero abbastanza esiguo: quattro opere teatrali scritte prima della Trilogia, negli anni Settanta; un quinto testo scritto nel 2007 (ultimo della sua produzione).
Tra il 1975 e il 1986 niente, poi la Trilogia pubblicata tra il 1986 e il 1991. A questo successo mondiale seguirono l’unico altro romanzo Ieri (1995); una sorta di brevissima autobiografia romanzata (L’analfabeta, 2004) e una antologia di storie (C’est egal, trad. it. La Vendetta, 2005).
Abbastanza poco considerato il volume dei libri, che sono tutti di un centinaio di pagine quando non meno, con l’eccezione della trilogia che però è frutto dell’accorpamento, appunto, di tre romanzi.
Una prima risposta alla esiguità della sua produzione l’avevo messa a chiusura della sua storia, nella prima parte, riprendendo una sua intervista in cui sosteneva come, alla fine, la vita di una persona si riduce a raccontare quell’unica storia che si porta dietro. Lei ha scritto solo quei libri perchè aveva finito di raccontare la sua storia, e il resto sarebbe stata una letteratura che non amava, per cui non aveva alcuna inclinazione. Anche la sua vita di lettrice è misurata e facilmente intuibile. Una stima su tutti per Thomas Bernhard.
Potevo ancora scrivere? Sì, forse avevo ancora qualcosa da scrivere. Ma se non venivano (i libri, ndr) andava bene così. Se non ci sono cose essenziali allora non c’è niente da scrivere. Non è grave.
Per la Kristof non si può raccontare niente di veramente altro dalla verità, ed è proprio questo il nodo cruciale del suo scrivere: il confronto continuo tra l’essenziale della verità da raccontare e la finzione che, per forza di cose, contamina le sue storie. Cioè tra il contenuto di una vita, le sue parti di verità, le determinazioni storiche e la forma del romanzo, in qualche modo una scatola di finzione chiamata a contenere tutto il vero.
Agota Kristof ha scritto la sua vita. Nient’altro. Inventata, romanzata, modificata. Ma, in definitiva, modellata sulla sua esperienza. Quello che lei ha fatto è stato mettere tutto insieme (vita e letteratura) fino a che non risultava talmente confuso da non riuscire più a capire dove le spezzate della verità delle cose si congiungevano alle spezzate della letteratura, dell’invenzione.
Il luogo dove ricordava e il luogo dove inventava li fece coincidere in una stessa cosa: uno spazio grigio dalle sfumature senza più confini.
Non volendo separare i due piani, anche all’interno del romanzo stesso si trova la dialettica di questi elementi. Nella Trilogia ad un certo punto si legge:
– Quello che mi interessa sapere e se scrive delle cose vere o delle cose inventate.
Le rispondo che cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. Le dico che cerco di raccontare la mia storia, ma che non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero.
Dice:
– Sì. Certe vite sono più tristi del più triste dei libri.
Dico:
– Proprio così. Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.
Lei scrive di questo: solitudine, esilio, la ferocia di un certo tipo di esistenza. Lei stessa suggerisce una parola che riassume tutto: sradicamento. Le altre parole possono cogliere meglio un aspetto di ciò che ha vissuto e di ciò che ha scritto, fa capire lei, ma nel complesso perdono qualcosa che il concetto di sradicamento mantiene, andando a lambire sfere di significati che appartengono al culturale, al morale e al sentimentale.
La sua tecnica di scrittura è stata piegata alla necessità di spillare la ferocia di quello sradicamento. Renderlo visibile, tangibile in quel che voleva scrivere. La si tocca, quella ferocia. Ed è da sempre attribuito alla letteratura assumersi il compito, e la responsabilità, del pronunciare il marcio del mondo.
Agota Kristof è riuscita nel suo intento perchè aveva la forza di cancellare totalmente la bellezza dalla scrittura. Eliminando proprio la concezione di bello, l’idea romantica di bellezza. La sua era continua sottrazione, semplicità monastica, un controllo e un rigore totali ed estremi, spinti fino ad arrivare all’abnegazione, al sacrificio del falso in nome del vero.
La Kristof invertì ciò che da sempre faceva la letteratura, ovvero un mondo falso con elementi di vero. Lei capovolge, rimette il sistema sui piedi. Il mondo vero, accaduto, con elementi di falso.
Mai un aggettivo di troppo, molto spesso mai un aggettivo affatto. Scrivere senza aggettivi significa eliminare l’estetica dalla scrittura. È togliere colore, come fotografare in bianco e nero. Lei scrive di aspetti della vita che non hanno bisogno di aggettivi, se visti dal suo punto di vista. Anche l’amore, se scritto con un aggettivo, le pare già zuccherino e diabetico. Fatti, dicono i gemelli della Trilogia: la retorica non può e non deve abitare quei paesaggi. È proprio bianco e nero, è il Salgado della letteratura. Come il fotografo brasiliano: arrivare al fondo, morte e violenza cieca, e dirlo in bianco e nero perchè c’è certezza che il colore serva a poco, là dentro.
Un’estetica realista (in senso lukacsiano; Lukacs è ungherese come lei), ma è superfluo qualunque accasamento, specie se si deve tornare dalla parte rossa dell’ideologia. Lei sta fuori da tutto. Non c’entra con nessuna scuola, nessuno schema, niente. Scrive così per vocazione, non per appartenenza.
Il processo è una sottrazione fino all’osso delle cose, fino alla loro verità.
Qualche critico aveva provato ad azzardare l’idea che tutta la poetica fosse riducibile allo spaesamento linguistico, ad una specie di disorientamento dato dal fatto che non conosceva bene il francese, sua seconda lingua, vocabolario dato dalla necessità del vivere a Neuchatel. Ma non è così. La Kristof cominciò a scrivere come tutti. Prolissa, retorica, celebrativa. Ma poi capì che quello che voleva dire poteva essere scritto solo in un altro modo, e cominciò a cancellare aggettivi, subordinate e immagini che trovava colorate e ipocrite. Setacciare tutto ciò che non viene dalla realtà ma dall’interpretazione emotiva della realtà. Cominciò a rimuovere tutti i filtri che obbligano a vedere il mondo come un fatto emotivo, di stomaco, e non per quello che è.
In ultima analisi è proprio per questo che riesce a dire l’orrore e la tristezza di quel vivere (storicamente determinato): per come scrive, per il sacrificio che fa della scrittura all’altare della verità.
Si potrebbe pensare che la persona, Agota Kristof, fosse della stessa fattura dei suoi romanzi. Del resto Proust era un personaggio facilmente assimilabile ai suoi romanzi. Lo era Wilde e lo erano, per dirne alcuni, gli scrittori della Beat Generation. Louis Ferdinand Cèline sguazzava nella miseria che l’ha reso celebre, vivendola prima di raccontarla. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma è un concetto che abbiamo già espresso nell’idea della Kristof che un essere umano abbia solo una storia da raccontare, che altra non è che la sua.
Dalle interviste e dai documentari si vede che Agota Kristof appartiene a quella categoria di romanzieri. Tuttavia non era una persona amara, né rancorosa, né incattivita con il mondo. Aveva una grande naturalezza nel sistemarsi in disparte dal corso delle cose, farle scivolare senza fare rumore.
Nel 2005 intitola le sue storie C’est egal, “è uguale” (in italiano, non so perchè, è diventato La Vendetta). A lei è capitata la vita che ha avuto, non c’è da sbatterci troppo la testa né portare dentro veleno.
“Mi rappresenta. È la mia natura. Io sono così. Per tutta la mia vita è stato così. Non è l’età che mi ha portato a questo punto. È stato sempre così, anche per l’amore. E lo diventa sempre di più. Anche per la scrittura, per la letteratura. Per me fa tutto lo stesso.”
Un pensiero su “La scrittrice di K.: scrivere la verità, scrivere la finzione”