La scrittrice di K., una storia.

Ci sono libri che ad un certo punto cambiano le carte con cui si gioca al tavolo della letteratura. Succede più raramente (molto più raramente) che arrivano libri che non si limitano a cambiare le carte, ma anzi hanno una presunzione giustificata a far alzare tutti dal tavolo per cambiare le regole stesse del gioco.
All’inizio degli anni Novanta è successa una cosa del genere con un libro francese di una scrittrice ungherese (naturalizzata svizzera) che esordiva nel mondo della letteratura a cinquant’anni passati. Ci ha messo molto, ha pubblicato il suo libro, ha pubblicato ancora qualcosa, poi è praticamente sparita.
Lessi il libro qualche anno fa. Poi è capitato di rileggerlo, fino a che l’ultima volta, mi sono messo anche a fare un lavoro diverso. Volevo capire come era fatta la penna che l’aveva pensata, tutta quella storia lì. Così è finita che mi sono messo a leggere tutto quello che era disponibile tra libri, interviste e documentari sulla persona dietro al libro. Ho messo insieme la sua storia e un po’ il perchè mi piace come scrive. Siccome è venuta una cosa lunghissima l’ho tagliata, ma era comunque troppo e sono stato obbligato, per ovvie ragioni, a dividerlo in due parti. Il primo post (questo) è la sua storia. Nel secondo post ci sarà ordine sul perchè penso (non solo io) che scriva in un modo pazzesco.
Lei si chiama Agota Kristof, il libro per cui è famosa: Trilogia della città di K.

Agota K.

La sua storia comincia in un primo settembre tiepido di fine estate, 1939. L’Europa si muove a scatti, Hitler ha annesso l’Austria l’anno precedente e all’alba, quel primo settembre, comanda la messa in moto della macchina d’invasione verso la Polonia, da sudovest. Quindici giorni dopo, da nordest, ci penseranno i russi a fare della Polonia terra di nessuno. Sono i primi mesi della Seconda guerra mondiale.
Quella mattina una bambina gioca nell’unica strada di un paese minuscolo che vive nell’estremo occidente dell’Ungheria. Un paese contadino, dove gli abitanti si conoscono tutti, meno di cinquecento. Non c’è acqua corrente né elettricità. La strada è una sola. Quando piove diventa tutta un fango, ma per i piedi non è un problema, dato che di auto non ce ne sono.
In quel paese la vita scorre come sempre: la Polonia è lontana, Hitler lo si conosce poco. Si conoscono i tempi delle semine, si conosce la saggezza della terra. Tutto è pragmatismo campagnolo di chi ha in testa il sopravvivere e poco altro. L’orologio è l’arco del Sole – alba e tramonto per il grano che sfama. C’è poi un vangelo che non si sa leggere, ma che si ascolta la domenica.
Nel paese c’è una sola scuola, il maestro insegna a tutte le classi, ed è il padre di quella bambina.
Lei ha quattro anni, passa le giornate a giocare all’aperto insieme ai suoi fratelli. Unico gioco che conoscono è mettere peso sulle ossa; farsi una scorza forte, una buccia per il mondo. Il fratello più grande si chiama Yano, le passa un anno. Quello più piccolo Attila. Lei è in mezzo, quattro anni: Agota.

La guerra è vanitosa, e vuole stare dappertutto: devasta l’Europa continentale e oltre la Manica arrivano le bombe sganciate dalla Luftwaffe. Presto diventa una faccenda di tutti, e nemmeno gli Oceani hanno più la capacità di contenere quel degenero. Si salvano in pochi, come la Svizzera, tutta in mezzo ai monti.
In quel piccolo paese di confine le cose vanno lente, c’è guerra, ma non si vede. Ne si sente parlare. Gli aerei passano sopra la testa, ma loro, ungheresi guidati da un vecchio ufficiale asburgico filonazista (Horthy) combattono il gigante russo sul fronte opposto rispetto al paese di Agota, che si affaccia sull’amica Austria, destitutita di sovranità per la causa del grande Reich pangermanico.
Agota quando è punita viene mandata da suo padre, il maestro, che sta dentro la scuola. Entra nella classe dove insegna, si siede in fondo. Legge. A quattro anni lo sa già fare. Era come una malattia, dirà. Tutto ciò che è scritto lei lo legge. Liste, libri, giornali, gesso sulla lavagna. Tutto. Vive in un posto dove la fantasia salva, se sopravvive. Sennò muore tra i campi e il fango, già da bambini. E senza rendersene davvero conto lei l’ha capito. Qualcuno direbbe cose che c’entrano con un qualche destino, o una forma di predestinazione alla grandezza. Un po’ come Victor Hugo quando a quattordici anni disse: “Voglio essere Chateaubriand, o niente.”, e divenne molto di più

Ogni tanto la nonna arriva dalla città per salutarli e dare una mano alla famiglia. Così, la sera, mette a letto i nipoti al posto della madre. I suoi fratelli vorrebbero raccontata loro una storia e la nonna racconta. Ma Agota si annoia, di una noia che non la fa nemmeno dormire. Allora la interrompe, si fa prendere sulle ginocchia e la sostituisce.
Non finisce mai; arriva sempre prima l’ora in cui bisogna spegnere la lampada a petrolio perchè il combustibile costa, specie in guerra.
Finisci domani, le dice la nonna mentre i fratelli dormono.

Nel ’44 accade una di quelle cose che poi, a ritroso, è uno dei due o tre gradini che segnano la vita. È l’evento che corrisponde ad un Platone nella storia del pensiero, o a Pelè in quella del calcio. Agota e la sua famiglia si trasferiscono una decina di chilometri ancor più verso l’Austria. Si parla un dialetto strano, in quei posti, il più delle volte è più tedesco che ungherese. Per la prima volta Agota si accorge che esistono altre lingue, che non tutti gli esseri umani parlano la lingua di mamma, dei suoi fratelli, del suo mondo.
È come il primo graffio di quella immane ferita che sarà il francese, anni dopo.
La città si chiama Köszeg. Ma a lei non servono tante lettere. Ne basta una, e la città diventa, per lei in quel momento, per tutto in mondo anni dopo, la città di K.

Arriva il 1945, Agota compie dieci anni e la guerra finisce.
L’Ungheria è sconfitta e invasa dall’Armata rossa. Budapest è liberata (ma è un concetto storico quantomai inappropriato per i paesi che hanno visto la guerra finire sotto le stelle rosse delle divise russe).
Il mondo si riassesta sui due blocchi e l’Ungheria diventa un satellite sovietico dopo essere stato il primo baluardo nazista contro i comunisti, al fronte orientale. La capitale Budapest diventa uno dei nodi chiave di quella che Churchill denominò, con immensa fortuna, Cortina di ferro, che scende dalla Polonia fino alla Jugoslavia comunista, ma non allineata, di Tito.
Si è liberi, ma dopo la fantomatica liberazione manca tutto; sembra si stia addirittura peggio rispetto alla guerra. In un intervista Agota dice di quel tempo che a parte dei privilegiati erano tutti poveri. Certi, persino più poveri degli altri.

Essendo un paese di frontiera la Città di K. si trova dalla parte sbagliata. La frontiera sicura adesso è quella dove fino ad un mese prima c’era la guerra. La linea che separa l’Austria dall’Ungheria è anche quella che separa gli amici dai nemici.
Köszeg era prima della guerra un paese pieno di scuole. Ma è un paese di frontiera e si teme una fuga in massa, soprattutto di giovani, da sempre restii alle occupazioni, specie se mascherate da governi popolari. Così le scuole vengono tutte spostate, verso l’interno. Rimangono le primarie: gli asili, le elementari. Köszeg diventa una città quasi fantasma. I confini sono presidiati dai russi, ma come tutti i confini non tutelano chi è dentro da chi è fuori. Perchè non c’è nessun nemico ai confini ungheresi. Difendono l’idea malsana del comunismo popolare e totalitario, un ossimoro, da ciò che è altro: libertà, democrazia. Sono confini che servono a non far uscire e non far vedere.

A quattordici anni, nel 1949, Agota va in collegio.
Il collegio è pagato dallo Stato e non è uno di quei posti dove aspirano a creare le èlite del paese futuro. Anzi. Agota Kristof scrive in una specie di autobiografia che era a metà tra una caserma e un convento; un orfanotrofio e un riformatorio.
La vita è monacale. Sveglia alle sei, ginnastica, colazione, scuola, studio, alle dieci si spegne la luce. È in quei pomeriggi inutilmente vuoti che Agota scrive. I compiti si sbrigano troppo in fretta e il resto è solo attesa di un tempo che pare infinito, giorno dopo giorno. Non c’è nulla da leggere, e quel poco che c’è sono letture obbligatorie la cui censura non ha niente da invidiare al passato culturale della Germania nazista o di zdanovismo impostato dal compagno Stalin.
Scrive della sua infelicità, di un senso di libertà privato. Per questo piange, la sera, nel suo letto, tanto che non le resteranno lacrime per piangere il futuro. Troppe lacrime a quell’età diventeranno un callo che drena il patetico dai suoi libri e chissà, forse anche dalla sua vita.

Si fanno gli anni Cinquanta. La Repubblica popolare d’Ungheria è un paese in ginocchio come la Polonia, la Cecoslovacchia, la grande Unione Sovietica.
Una preoccupante cecità intellettuale contagia gran parte dei comunisti dei paesi occidentali, strenui apologeti di Stalin preoccupati ancora di poter fare la rivoluzione per abbattere le classi e dare il potere al popolo. Da lontano, dalle scrivanie e dalle conferenze, contribuiscono a perpetrare un dolore e una miseria indicibile.
Il padre di Agota nel frattempo viene arrestato perchè intellettuale, o perlomeno perchè minimamente alfabetizzato, quindi politicamente instabile nella già precaria campagna.
La madre cerca di sopravvivere come può. Ma di soldi nemmeno l’ombra. Agota è in collegio.
Un giorno va nello stesso paese dove è sito il collegio, a trovare sua figlia. Si incontrano quando Agota ha la libera uscita. Il racconto che fa dell’incontro è spietato: si chiedono se va tutto bene. Spesso stanno in silenzio. Agota chiede informazioni sui fratelli ma la madre ha poco da dire.
Qualche altra parola di circostanza, poi non hanno più nulla da dirsi. Anche se Agota avesse bisogno di qualcosa lei non potrebbe aiutarla in nessun modo data la povertà profonda, così lei preferisce non chiedere niente e risparmiarle la vergogna. Avrebbe bisogno delle scarpe che sono rotte ed entra la neve. Ma quando nevica preferisce fingere di avere la febbre, così non si deve alzare dal letto e non soffre il freddo. Tutto questo glielo tace.
Alla fine si salutano con un bacio, e con quel bacio non si vedono più.

Il 5 marzo 1953 muore Stalin, nel centro del potere sovietico immediatamente cala l’abisso. Il sentimento antistalinista comincia a prendere coraggio e poi voce; la chiamata alla segreteria del PCUS premia Nikita Chruscev e nelle sinistre comuniste europee comincia a farsi largo l’embrione di una grande ala revisionista.
Cominciano anche le insurrezioni. Ci si rivolta a Berlino Est, poi a Poznan, in Polonia. Si spara sulla folla e si contano i morti. L’Unione Sovietica rimpasta i capi ungheresi come se fossero burattini e loro i burattinai; verità, del resto.
Le prime, tenui, proteste antisovietiche sono nel ’54, durante una partita di pallanuoto tra le due nazionali. Per la Russia gli ungheresi (il riferimento è Budapest) starebbero rilassandosi troppo su livelli borghesi. Cosa significa, di preciso, è irrilevante. E i capi cambiano ancora. Ma le voci di protesta si fanno grosse. L’Ungheria è obbligata a partecipare al Patto di Varsavia, che risponde alla NATO occidentale. Ufficialmente è amicizia, cooperazione e mutua assistenza. Praticamente significa che l’URSS comanda e tutti gli altri obbediscono. La prima volta che lo si dimostra è proprio in Ungheria l’anno successivo. L’Austria è demilitarizzata, ma di fatto è vicina alla Nato, considerando che ha intorno l’Italia (uno dei fondatori) e la FDR, la Germania occidentale.
Si pensa in vista di una possibile guerra tra le due potenze, e in quell’ottica uno stato di confine come l’Ungheria è importante da preservarsi.
Si tira in una tensione d’archi fino al ’56 e al XX congresso del Partito comunista russo guidato dal segretario Chruscev, che denuncia il culto della personalità di Stalin. A Poznan si rivoltano, di nuovo vengono massacrati dalla polizia e dall’esercito sovietico. Ma il filo della cortina trema. Ai comunisti polacchi sono state concesse libertà impensabili. Allora a Budapest ci si organizza e nelle università si fa assemblea. Chi muove tutto sono i giovani e gli intellettuali. Artisti, scrittori, giornalisti, docenti. Diventa una rivoluzione, sempre più grossa. Ungheria ’56, quando tutto, nell’Italia del boom, sembrava andasse bene, come canta De Gregori nella canzone che porta il titolo di quell’anno. Viene sedata a sangue e profughi con 200.000 unità di fanteria e 4000 carri armati russi. Di nuovo: 200.000 soldati e 4000 carri, per una rivoluzione che vede dall’altra parte principalmente studenti.
Verso l’Austria è un esodo biblico. Centinaia di migliaia: tra loro Agota Kristof, suo marito e la loro bambina di quattro mesi.

Sì perchè nel frattempo Agota si è sposata, a diciott’anni. Il marito insegna Storia. La rivoluzione insinua la peggiore delle paure per un essere umano che vive del suo sapere intellettuale: il carcere politico. Entrare e uscire chissà quando. Magari non uscire proprio. Le accuse si trovano sempre, quando mancano basta un niente a fabbricarle. Il marito di Agota è un intellettuale, e ha paura. Quindi decide di attraversare il confine e lei non può fare altro che assecondarlo. Decisione amara, che poi rimpiange e rinfaccia. Un vecchio amico di Agota, Joseph, fa il “passatore”. Porta la gente dall’altra parte in cambio di soldi che una volta di là sono carta straccia.
Agota e suo marito partono con due borse: in una le cose per la bambina; nell’altra dizionari.
Passano il confine di notte, camminando piano per qualche ora, in mezzo ad un bosco fitto. Oltre ad Agota e al marito ci sono altri ungheresi fuggitivi. Ad un certo punto Joseph si ferma e dice: Ora siete in Austria. C’è da camminare sempre diritto, fino al primo villaggio. Così fanno e diventano rifugiati politici. Si arriva in Austria, ma la maggior parte di loro finirà in Svizzera o nel Nord-Europa.

In Ungheria lascia i fratelli, i genitori, gli amici, senza dire una parola di saluto a nessuno. Lascia le sue poesie in ungherese. Ma ben oltre questo: lascia una cultura, una lingua, un’appartenenza, un popolo. Vent’anni di vita, una linea attraversata e tutto scompare; è un passaggio ad una sola direzione. Diventa niente, improvvisamente.
In Ieri, l’unico altro suo romanzo oltre alla Trilogia della città di K., fa dire al suo protagonista Tobias che è solo diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore. È in quel momento, allora, che lei diventa una scrittrice.
La scena di questo passaggio da cittadina a rifugiata (in senso prima di tutto etico-esistenziale) sta tutto nel finale de Il Grande quaderno, la prima delle tre parti della Trilogia.
I gemelli, protagonisti, aiutano un forestiero che vuole passare il confine, ma fingono per raggiungere il loro scopo, che è passare di là loro stessi. Fanno andare avanti il forestiero, lui salta su una mina e uno dei due gemelli passa il confine. “Quello che resta torna a casa di nonna”, al di qua del confine. Torna indietro. Non possono passare entrambi.
Si scoprirà che i gemelli non esistevano, era uno solo.
Ho scritto di un doppio perchè era troppo dolore per un bambino solo, dice. Dividerlo in due era sopportarlo meglio. Lo dice in una intervista, senza inflessione, come parla lei e come parlava anche la Szymborska dietro gli stessi occhiali di metallo e le stesse, decine, di sigarette. Viene naturale e conseguente pensare allora che quel giorno di Novembre ’56 anche lei, in qualche maniera, sia passata oltre il confine – per dirla alla McCarthy – e allo stesso tempo sia tornata in quell’ultima casa al di qua della frontiera; a casa di nonna. Nella sua immaginazione, lei che non ci voleva andare, non ha mai abbandonato il suo paese. Lei è stata anche quell’anima che non esiste, quel doppio di sé, che invece di partire, è restata.

Per caso Agota Kristof, suo marito e sua figlia si stabiliscono a Neuchâtel, nella Svizzera francese. Impara il francese, ma mai bene abbastanza. Sufficiente per scrivere, per come scrive lei. Quasi da subito comincia la sua esperienza in fabbrica. Si fanno orologi in un posto che si chiama Fontainemelon. Pagati a cottimo, lei prende un pullman che la porta dove c’è la fabbrica, lascia la bambina, e per tutti il giorno fa un’unica operazione: dei buchi in una rotella, con due macchine alla volta. La fabbrica uccide in una implacabile monotonia. Lei inverte le proporzioni del rapporto e forza quella monotonia in una musica. Il cadenzato rapporto della scrittura in versi. Piega il non pensare di una catena di montaggio al pensiero poetico. Scrive i versi su un foglio, poi la sera, come i gemelli della Trilogia, scrive a matita su un grande quaderno, in bella.

Passano gli anni che si mettono uno sopra l’altro. Ha tre figli, si separa anche dal secondo marito e finisce il primo romanzo. Lo chiama Il grande quaderno; è il 1986. Lo spedisce ai tre grandi di Parigi: Gallimard, Grasset e Seuil. I primi due ringraziano ma declinano. Interessante, sicuramente. Ma forse non adatto al mercato. Il rifiuto di tutti i grandi. Seuil invece vede più in fondo e prepara un contratto. Nel 1988 pubblica La prova, il secondo romanzo della Trilogia. Nel 1991 – mondo comunista che va sgretolandosi pezzo dopo pezzo, mentre in Italia ci si prepara allo stesso crollo, ma della Prima Repubblica via Tangentopoli – pubblica l’ultimo romanzo dei tre: La terza menzogna.

Sono passati vent’anni e ora la Kristof è tradotta in trenta lingue. Ha uno scaffale nella sua libreria con tutte le traduzioni. Ama quelle in giapponese perchè può essere qualunque cosa, non si riconosce che è mio, dice.
La Trilogia è il suo libro, ma ha scritto altro, quasi tutto in quel periodo dei primi ’90. Un solo altro romanzo (Ieri), qualcosa per il teatro, una antologia di storie (La vendetta). Sono libri brevissimi, tutti. Ma soprattutto sono la ripetizione di movimenti della stessa sinfonia. C’è la stessa musica dentro, che è, in definitiva, la Trilogia. Perchè ogni scrittore ha una sola grande storia da scrivere. C’è chi riesce con venti romanzi in una carriera, e divide quella storia in bocconcini piccoli. Ci sono altri che riescono a farlo con un libro solo. Agota Kristof appartiene a questi ultimi.
Una volta, qualche anno fa, le fecero la fatidica domanda che viene posta agli scrittori. La dicotomia eterna tra il vivere e lo scrivere. Lei ci pensò un po’. Poi disse: “Sono convinta che ogni essere umano è nato per scrivere un libro e nient’altro.”

SrM

Nel frattempo è uscita anche la seconda parte dell’articolo.

2 pensieri su “La scrittrice di K., una storia.

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